Quattordici.

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Andiamo avanti a suonare e cantare per un tempo che sembra durare giorni, mesi, anni. O forse sono solo minuti. Acceleriamo, rallentiamo, facciamo sfogare la nostra passione, la nostra musica. Siamo seri. Poi sorridiamo. Poi ridiamo forte. Il cuore batte all'impazzata, il sangue bolle nelle vene. Quando ci fermiamo, lei è tutta sudata e io non ho più fiato in corpo. Restiamo seduti senza parlare, con i respiri che rallentano insieme e i battiti del cuore che vanno allo stesso ritmo. Guardo l'ora. Sono le cinque.

«E adesso?», chiedo.

«Facciamo Harry Styles?», risponde, pur sapendo che non è questo che volevo sapere.

Ma, in fondo, anch'io vorrei continuare a cantare, perché per la prima volta dopo tanto tempo è la sola cosa che desidero. E ho paura di quello che potrebbe succedere quando la musica finirà.

«Mi sa che ho perso l'aereo», dico.

Ma non mi importa. Ci saranno altri mille voli per Roma, ma non ora, non oggi.

«Tu ce la fai a prendere il tuo?»

«Non voglio prenderlo», risponde sicura. «Posso partire anche domani, o dopodomani.»

E all'improvviso vedo Leo che cammina avanti e indietro per l'aeroporto di Fiumicino chiedendosi dove diavolo io sia finito. Penso a Bea, che starà girando il film, o sarà a fare shopping in centro con le amiche, o a casa ad aspettarmi, ignara del fatto che qui a Milano è successo un casino, che avrà conseguenze anche su di lei. E capisco che prima devo occuparmi di loro.

«Ho bisogno di fare qualche telefonata», dico a Victoria. «A Leo, che mi avrà chiamato già venti volte... e a Bea.»

«Sì, certo. Il mio iPhone è di sotto. Anche io dovrei avvisare la band, il manager e...»

«Vic», la interrompo.

«Sì?»

«Sistemeremo tutto.»

Le accarezzo la guancia e scendo di sotto. Il cuore mi va a mille e ho un mal di testa lancinante. Vado in giardino e compongo il primo numero. Leo risponde subito. Gli spiego che sto bene, ma che non tornerò a Roma, che non rilascerò altre interviste, che non rispetterò l'agenda di impegni che abbiamo programmato, ma che sarò qui a Milano, sabato, pronto per la prima data del tour.

«Ma sei impazzito? Quante canne ti sei fumato? Ma che cazzo!»

«Leo, sono con Vic.»

Non lo vedo, ma immagino perfettamente la sua espressione come se l'avessi davanti agli occhi.

«Ci sentiamo per sabato. E, be', salutami Vic», dice semplicemente.

«Sei un fratello.»

Lo saluto. La prossima telefonata è quella più difficile. Fumo una sigaretta e poi compogno il numero.

«Pronto?»

«Bimba.»

«Ero sicura che fossi tu», dice sentendo la mia voce. «Ti si è scaricato il telefono e hai dimenticato il caricatore, immagino. Dove sei?»

«Ancora a Milano», e decido di sganciare subito la bomba. «Con Victoria.»

Il silenzio riempie la distanza tra noi che diventa sempre più grande. Cosa le dovrei dire? Spiegarle quello che è successo nelle ultime ventiquattro ore? Da quando sono entrato "per caso" nel locale dove lei suonava fino allo spettacolo di pochi minuti fa nel suo studio? Se le dicessi che sono a casa sua mi ucciderebbe anche a distanza. Dovrei dirle che finalmente ho realizzato che tra noi non avrebbe mai potuto funzionare? Che sono stato un pessimo fidanzato? Potrei augurarle di trovarne uno migliore, sperare che con il prossimo abbia più fortuna, perché, in realtà, se lo merita davvero un bravo ragazzo, che sia degno di lei, più di quanto lo fossi io.

«Bimba, ci sei?»

«Sì.»

Ma segue un altro lungo silenzio. Aspetto che urli, che si sfoghi elencando tutti i miei difetti, però non lo fa.

«Ascolta, chiamami quando vieni a prendere le tue cose. Le chiavi lasciale sul piattino all'ingresso.»

«Okay.»

Riaggancia.

Rimango impalato con il telefono all'orecchio, a riflettere sul perché, d'un tratto, mi sento travolgere da un misto di sollievo e libertà.

Alzo lo sguardo. Victoria è sulla soglia della porta a vetri. Le faccio un cenno e lei si avvicina lentamente. Le restituisco il telefono e lei se lo infila nella tasca posteriore dei jeans.

«Va tutto bene?», mi chiede.

«Diciamo di sì.»

Restiamo così per un momento, a sorridere come due stupidi. Poi le prendo la mano sinistra e gliela accarezzo. Risalgo al polso e me lo porto alle labbra, e le bacio la cicatrice. Ho sempre voluto farlo.

La sto toccando. È Victoria che sto toccando.

«È tutto vero?»

Lei sorride, e il suo sorriso è ciò che c'è di più bello al mondo.

La avvicino a me, la stringo fra le braccia, affondo il viso nei suoi capelli e respiro il suo profumo. La bacio dietro l'orecchio, nel modo che la faceva impazzire, nel modo che, a giudicare da come resta senza fiato e mi affonda le unghie nella schiena, la fa impazzire ancora. Poi sento le sue mani infilarsi sotto la mia camicia.

«Se andiamo avanti così, i vicini assisteranno a un bellissimo spettacolo.»

Le accarezzo una guancia, le bacio il naso e mi fermo. Restiamo ancora a guardarci negli occhi per un po', ad assaporare il momento.

Ad un tratto, le gambe di Victoria si staccano da terra e si avvolgono ai miei fianchi, le sue mani mi scorrono sui capelli. E le labbra. Le nostre labbra non hanno abbastanza tempo, i nostri polmoni non hanno abbastanza ossigeno, per recuperare gli anni perduti.

«Andiamo dentro», dice Victoria con un tono che per metà sembra un ordine e per metà una supplica.

La porto dentro, su quel divano su cui abbiamo dormito poche ore fa, vicini, ma divisi.

Questa volta, però, siamo svegli, nudi, e siamo una cosa sola.

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