Cinque.

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C'ero anch'io in quella macchina, mentre lei guidava e mi urlava contro. Sono stato anch'io su un letto d'ospedale, tutto ammaccato e con una gamba rotta. Non mi era permesso muovermi, ma ogni mattina andavo nella sua stanza, sperando di rivedere i suoi occhi azzurri il prima possibile.

Nelle prime settimane non riuscivo a chiudere occhio.

Non è successo veramente, vero?

Invece sì.

Sapevo che si era svegliata e che stava bene, e questo mi bastava. Avrei voluto esserci, essere presente, come avevano fatto tutti gli altri, dirle che su di me poteva sempre contare per qualsiasi cosa. Invece, mi sono isolato. Mi sono ripreso anch'io, ma senza l'aiuto di nessuno.

Dimesso dall'ospedale, sono tornato dai miei. Sistemata la gamba, ho preso le mie cose e ho mollato tutto. I miei amici, quello che era rimasto della band, la vita che avevo, senza spiegare niente a nessuno. Ho trovato un appartamento in affitto e mi sono trasferito. Me ne stavo raggomitolato nel letto come un bambino spaventato. Avevo paura che qualcuno mi trovasse, buttasse giù la porta e mi costringesse a dare spiegazioni.

La notizia dell'incidente si è diffusa velocemente. Quella di un nostro definitivo scioglimento ancora di più.

Mia madre ha accettato che me ne andassi senza fare domande. Quando non lavorava, veniva a trovarmi per un caffè o a cucinarmi un pranzo decente. Mi sentivo un po' come se fossi agli arresti domiciliari.

Ho passato un mese praticamente sdraiato nel letto, prima di iniziare a vergognarmi di me stesso. Avevo ventun anni, avevo interrotto gli studi, avevo affittato un appartamento e per quel che sapevo non avevo più un lavoro. Mia madre è stata fin troppo comprensiva, cominciavo a farmi schifo da solo.

«Hai mai pensato di riprendere a studiare?», mi chiese una mattina.

Non le risposi.

«Che cosa vorresti fare?»

«Andrò a lavorare in fabbrica.»

«Tu? In fabbrica?», rise. «Non vorresti qualcosa di meglio?»

Il meglio, io, l'avevo già avuto e spazzato via: una carriera da cantante, degli amici e compagni meravigliosi, il successo della band, la vita dei miei sogni.

Qualche settimana più tardi Thomas ed Ethan vennero a trovarmi, con lo zampino di mia madre probabilmente. Capii dall'espressione di Ethan che non avrebbe dovuto dirmelo, ma a Thomas scappò una cosa di bocca: forse Victoria sarebbe tornata a Roma per le vacanze di Natale. Sapevo già che era una follia, ma per un attimo sperai che venisse a trovarmi, che venisse a chiedermi spiegazioni, perché gliele avrei date, solo a lei. Poi fantasticai sul fatto che mi avesse scritto delle lettere, una per ogni giorno, ma che a me non fossero mai arrivate, come nei film. Me la immaginai davanti alla porta, super incazzata, perché non le avevo mai risposto.

Ma dicembre volò via ed io ero riuscito a fare un solo passo avanti: trasferirmi dal letto al divano.

Un giorno, però, ricevetti la visita di una persona. Era quasi ora di cena ed io ero in coma sul divano, davanti ad una serie tv di Sky. Mi tirai su di colpo, sognando che fosse Victoria.

«Veronica?»

Era da un po' che non avevo sue notizie. Non avevo notizie di nessuno, in realtà.

«Ehi», mi sorrise. «Non è stato facile trovarti.»

«Sono solo a pochi chilometri da casa mia.»

Allungai una mano verso il pacchetto di sigarette e, prima di sfilare la mia, gliene offrii una.

«Sono passata da te, infatti, e tua madre non mi lasciava andare via. Voleva che rimanessi per cena. È stato bello rivederla.»

Sperai che mia madre non le avesse raccontato nei minimi particolari la situazione disperata in cui mi trovavo, anche se Nica avrebbe potuto intuirlo solo osservando le condizioni del salotto.

«Allora, cosa racconti?»

Fece spallucce.

«Niente, volevo farti un saluto, vedere come stai.»

Sembrava nervosa, ma anche un po' preoccupata. E se l'avesse mandata Victoria?

«Vi vedete spesso?», le chiesi.

«Cosa?», disse sorpresa.

La guardai negli occhi e ripetei la domanda.

«Vi vedete spesso?»

«S-sì», balbettò. «Cioè, non spesso. Siamo tutte e due impegnate e Milano non è proprio dietro l'angolo, ma ci sentiamo ogni giorno.»

«Lei lo sa che sei venuta?»

«No. Ma non sono qui per lei. Sono qui come tua amica.»

«Mia amica?»

«Sì», sussurrò.

«Allora, amica mia, chiedimelo, avanti! Chiedimi quello per cui sei venuta fin qui.»

«Damiano, ti prego...»

«Tu e lei ne avete mai parlato? Sono mai rientrato nei vostri discorsi?»

Fece un respiro profondo.

«Non sono venuta per parlare di Vic, ma per vedere te.»

A quel punto, esplosi.

«Che cazzo sei venuta a fare, eh? Chi sei tu per me? Tu non sei niente per me, non sei nessuno.»

Nica aveva lo sguardo basso, ma quando lo rialzò per puntare i suoi occhi nei miei, anziché essere pieni di rabbia, vidi soltanto tanta tenerezza.

«Damiano...»

«Vattene!», urlai. «E non farti più vedere.»

Quella notte, al posto di dormire, la passai a fare avanti e indietro per tutta casa. E mentre facevo su e giù come un imbecille, sentivo una strana sensazione crescermi dentro, una sensazione che mi supplicava di essere liberata, finché non uscì fuori insieme al pugno che assestai con forza contro il muro, e poi, siccome non mi ero fatto troppo male, ne diedi un altro alla finestra. Con soddisfazione sentii il dolore delle schegge di vetro che si conficcavano nelle nocche. E quella fu la notte in cui presi in mano la chitarra classica. E fu la notte in cui ripresi a scrivere canzoni.

Tre anni dopo, ho firmato un contratto con una casa discografica.

Tre anni dopo, Thomas ed Ethan erano tornati ad essere i miei compagni, i miei fratelli. Mi hanno aiutato molto, incidendo anche le tracce della chitarra elettrica, del basso e della batteria.

Tre anni dopo, ho ritrovato il mio migliore amico, che ora è anche il mio manager.

Tre anni dopo, "Without You" è pronto a scalare le classifiche, come ai vecchi tempi.

A quel punto, avrei dovuto ringraziare Nica, e forse chiederle anche scusa.

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