Quattro.

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Alla fine del concerto scoppia una degli applausi più lunghi che abbia mai visto. Le persone iniziano a spostarsi dentro il locale, parlano, commentano la bellezza dello spettacolo a cui hanno appena assistito.

Lei è sempre lei, in ogni parte del suo corpo, in ogni suo movimento, nell'espressione a volte concentrata e a volte spensierata, nelle sue smorfie, nelle sue mani magiche.

Eppure, stasera, dopo l'esibizione di un brano in particolare, l'ho notato di nuovo: qualcosa in lei è cambiato. Non saprei dire se si sia lasciata prendere dal ritmo o se quella canzone magari se la sentisse particolarmente dentro, ma il suo corpo trasmetteva un'emozione pura. E poi quell'espressione del suo viso, la mia preferita, che è quasi impossibile da descrivere. Gli occhi blu puntati sul pubblico, quel sorrisone sulle labbra, lei e la musica un tutt'uno. Era felice su quel palco, ne sono sicuro. Ho sempre creduto in lei, nel suo talento, sapevo che sarebbe arrivata ovunque desiderasse, ma vederla, stasera, mi ha spaccato in due, mi ha affascinato, mi ha spiazzato, e a giudicare dagli applausi, ha spiazzato anche il pubblico.

Adesso ho la sensazione che il locale sia più illuminato, la folla si muove e ho la sensazione che tutto intorno giri troppo velocemente. Ordino un'altra birra e cerco di non pensarci, cerco di non pensare a niente, di non pensare al suo modo di asciugarsi le dita sui pantaloncini tra una canzone e l'altra, al suo modo di scuotere i capelli a ritmo di musica, a tutti quei gesti che mi sono fin troppo familiari.

Mi appoggio al bancone per non perdere l'equilibrio e provo ad alzarmi. Mi assicuro che le gambe abbiano ripreso a funzionare e che il mondo abbia smesso di ruotare vorticosamente, e un passo alla volta mi avvio verso l'uscita. Ho solo voglia di tornare in albergo, prendermi un oki e una birra e di far finire al più presto questo giorno. Voglio addormentarmi e risvegliarmi dimenticandomi completamente di tutto ciò.

«Chiedo scusa, lei è Damiano David?»

Ho sperato tutta la sera di non essere riconosciuto e fortunatamente i milanesi sono così abituati ad incontrare gente come me ad ogni angolo della strada che molti non ci fanno più neanche caso. Qualcuno mi guardava ogni tanto, suppongo chiedendosi se fossi davvero io, ma niente di più.

«Vuole fare una foto?»

«No, no, signor David, non le volevo chiedere una foto.»

Si avvicina al mio orecchio e abbassa la voce.

«La signorina De Angelis vorrebbe vederla.»

Nel locale c'è un gran casino, penso subito di aver capito male. Mi è parso di sentire che lei vuole vedermi, ma avrò di sicuro capito male, molto male.

Non faccio in tempo a farglielo ripetere che mi ha già preso per un gomito e mi guida verso chissà dove. Entriamo in una piccola porta a lato del palcoscenico e percorriamo un piccolo corridoio dalle pareti scure. L'uomo apre un'altra porta e mi fa cenno di entrare nella stanza, richiude, e lei è lì. Per davvero. Non è un'immagine nei miei sogni o un fantasma del mio passato. E, stranamente, l'istinto non mi dice di correre ad abbracciarla, di baciarla. Però vorrei accarezzarle la guancia, ancora leggermente arrossata dopo l'euforia del concerto. Vorrei annullare la distanza che ci separa, che non è più di chissà quanti chilometri e di tre anni di silenzio, sono solo pochi centimetri. Pochi centimetri e potrei sfiorarle il viso con le dita. Vorrei toccarla per assicurarmi che sia vera, in carne ed ossa, che non sia solo uno di quei sogni che faccio la notte o di giorno ad occhi aperti, nei quali la sua immagine è perfetta come in questo momento, pronta ad accogliere i miei baci e i miei abbracci. Lei è qui, e non è più irraggiungibile.

Ma non mi è concesso toccarla, non più. È un privilegio che non mi spetta più.

Tutto intorno riprende improvvisamente a girare come in una grande giostra, cerco di non tremare come una foglia, voglio una sigaretta, ma non è il momento. Faccio qualche respiro profondo per rilassarmi, per evitare un attacco di panico. Apro la bocca cercando invano di far uscire le parole e mi sembra di essere su un palcoscenico davanti a un milione di persone, senza ricordare neppure una canzone. Ho l'impressione di essere lì impalato da un'ora.

La prima volta che ci siamo incontrati, al liceo, sono stato io a parlarle per primo. Le avevo chiesto perché suonava proprio quello strumento, per quale motivo avesse scelto il basso. E da quella domanda è nato tutto il resto.

Questa volta, però, è Victoria a cominciare.

«Sei veramente tu?»

La sua voce non è cambiata. Non so perché mi aspettassi che fosse diversa. Forse perché, a forza di riprodurla nella mia testa, sono stato io a manipolarla.

Avrei tanto da dirle.

Come stai?

Dove sei stata?

Ci pensi mai a me?

Ma sono parole che non riesco a pronunciare.

Il cuore comincia a battere forte, a rimbombarmi nelle orecchie, e sto per andare in tilt. Ed ecco quello sguardo, lo stesso che prima di salire sul palco, quando il panico era al massimo livello, riusciva a trasmettermi tutta la calma e la tranquillità di cui avevo bisogno, consentendomi di riprendere in mano la situazione.

«Sì, sono io», rispondo.

Come se fosse del tutto normale essermi presentato al suo concerto e come se il suo desiderio di vedermi dietro le quinte fosse la cosa più naturale del mondo.

«Bel concerto, comunque.»

Mi sembra giusto dirlo, in fondo non è nient'altro che la verità.

«Grazie», sorride lei.

Fa per aggiungere qualcosa, ma si ferma. Fa un respiro profondo, chiude gli occhi e ci riprova.

«Non riesco davvero a credere che tu sia qui.»

Per un attimo penso di violare il divieto di avvicinarmi a lei che mi sono auto-imposto. Non so cosa dire e continuo a fissarla. Si è cambiata, non indossa più gli shorts di pelle e il top di velluto nero, ma dei jeans chiari e una camicia smanicata.

«Come sapevi che ero qui?», le chiedo.

«Durante la pausa ho sentito parlare i ragazzi della sicurezza.»

«Ed io che credevo di non essere riconosciuto.»

«Tu? Impossibile.»

Sento di non poterne uscire vivo da questa conversazione.

«Allora, come stai?»

Come sto?

Mi sforzo di non guardarla in faccia, osservo i suoi capelli, prima sciolti e ora raccolti in una coda disordinata, le spalle nude che amavo baciare, la pelle liscia e candida delle braccia, la cicatrice sul polso sinistro. È sempre bella.

«Sto bene. Un po' troppo impegnato, ma bene.»

«Sei in tour?»

«No, il tour inizia sabato, qui a Milano faccio la prima data, ma domani torno a Roma.»

«Ah. Io domani vado a Londra.»

«Ti è sempre piaciuta quella città», penso, ma dall'espressione di Victoria capisco di averlo detto ad alta voce.

«Già, vecchie abitudini.»

Il silenzio sembra risucchiarci entrambi, sento di poter essere inghiottito, se non me ne vado.

«Forse ora è meglio se vado.»

Ho l'impressione di vedere un'ombra passarle davanti agli occhi, mentre io mi sento sempre più fuori di me.

«Sì, è meglio. Ciao, allora, e buona fortuna.»

Mi sorride e alza la mano per salutarmi.

Il mio braccio resta attaccato al mio corpo e trema più intensamente quando i suoi occhi ci si posano sopra.

«Anche a te. Ciao, Vic.»

Il suo nome resta sospeso nell'aria, finché la porta non si richiude, lasciando tutto alle mie spalle, e portando me alla deriva.

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