Dieci.

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«Casa dolce casa.»

«Quindi il tuo posto preferito di Milano è... casa tua?»

L'appartamento è piccolo, ma carino. Il piano terra è formato da un salottino con un divano bianco coperto da un telo leopardato, ovviamente, e da una piccola cucina. Una porta vetrata dà sul giardino posteriore. Presto il sole spunterà da lì e avrà inizio un nuovo giorno. Il giorno in cui io tornerò a Roma e Victoria partirà per Londra.

Ci sediamo per terra, sul tappeto del salotto, con le spalle appoggiate ai cuscini del divano. Sul tavolinetto, due bicchieri e una bottiglia di rum.

«Allora, a Roma che succede?», mi domanda con una smorfia strana in volto.

«Cosa intendi con "che succede"?»

«Qualcosa succede, è evidente.»

Chi poteva capire che qualcosa non andava, se non lei?

«Perché eri a Milano, oggi?»

«Avevo un intervista.»

Ripenso a quella mattina, alle parole di quella giornalista che mi dava sui nervi. E mi accorgo che essere qui a parlarne con Victoria non è per niente una buona idea.

«Mi ha chiesto di te, la giornalista.»

«Cosa?»

Victoria si gira di scatto.

«Durante l'intervista mi ha chiesto di te, della band, che cosa è successo... Ma tranquilla, non le ho detto niente. Anche perché non avrei saputo neanch'io che cosa raccontare esattamente. Tu lo sai?», scherzo.

«È quello che cerco ancora di capire.»

Fa un sospiro.

«Ma il passato è passato, giusto?»

Dopo il terzo bicchiere che riempio, ho bisogno di una sigaretta. Guardo il pacchetto appoggiato sul tavolo.

«Non ti permetterò di fumare qui dentro», afferma lei.

«Perché te ne sei andata?»

Mi è uscito d'istinto, senza il consenso della mia coscienza, prima che il mio cervello riuscisse a fermarmi.

«Non avrei dovuto? Avrei dovuto far finta di niente dopo quello che hai fatto? Anzi, dopo quello che non hai fatto?»

L'ha detto davvero. Il rum deve averle dato alla testa. Ma, in fondo, non era quello che volevo sentire fin dall'inizio?

«Cos'è stato a farti partire?»

«Un mucchio di cose.»

«Per esempio?»

«Tu!», sbotta.

Mi guarda. Nei suoi occhi percepisco ancora quel sentimento d'intesa, ma anche qualcosa di nuovo: tanta rabbia tenuta a freno per troppo tempo e tanta paura.

«Volevo solo che tu stessi bene.»

«Io non stavo bene, Damiano. Mi hai lasciata completamente sola nel momento in cui avevo più bisogno di te. E non venirmi a dire che ti sei allontanato da me per il mio bene.»

Le lacrime sono in dirittura d'arrivo, ma cerca di scacciarle via, sfogando la sua ira.

«Avresti potuto prima parlarne con me, dirmi perché, evitarmi il tormento di chiedermi per tre anni perché cazzo di motivo ti sei comportato così. Tu eri tutto per me, non ci volevo nemmeno credere che stava succedendo. E per il fatto di essere venuta qui, a Milano, è perché pensavo che essere lontana rendesse le cose più sopportabili.»

«Volevo parlarti, ma...»

Comincio a biascicare, ma se non posso fumare, voglio almeno sentire il rum bruciarmi in gola.

«Ero confuso anch'io. Tu eri lì, sdraiata in quel letto, praticamente era come se fossi stata morta. Non sapevamo se e quando ti saresti svegliata e... e poi sei stata tu a lasciarmi, a dirmi che non mi volevi più vedere.»

«Questa sarebbe la tua scusa per avermi abbandonato senza uno straccio di spiegazione? È da vigliacchi, Damiano, ed è anche un po' crudele. È vero, sono stata io a lasciarti, ma questo non giustifica il tuo comportamento da perfetto stronzo. Ti ho detto che non volevo più vederti, ma è stato in un momento di rabbia. Tu sei sempre stato il mio migliore amico, io avevo bisogno di te.»

«Perché non mi hai cercato? Perché queste cose non me le hai dette prima? Il tempo passava, tu non ti sei mai fatta sentire, pensavo che non mi volessi più. Se mi avessi chiamato, ti avrei risposto al primo squillo. Ho passato quasi un anno depresso, chiuso in me stesso e nella mia camera da letto.»

«Non potevo telefonarti.»

«Perché?», grido ormai al culmine dell'esasperazione. «Perché no?»

Mi guarda in faccia. È bella da mettere paura. Penso di baciarla. Scuote la testa e distoglie lo sguardo, mordendosi il labbro. Non può fare così. Mi farà impazzire.

«Perché no? Dimmelo!»

Le prendo il mento e la faccio voltare. I suoi occhi celesti sono di nuovo davanti ai miei, ed è come se prendessero la mira prima di assestare il colpo.

«Perché ti odiavo.»

Tutto tace per un momento e nelle mie orecchie resta solo il rumore del mio anello che sbatte frenetico sul vetro del bicchiere.

«E perché mi odiavi?»

«Ti ho sentito», dice con un filo di voce. «Ho sentito tutto.»

La sua calma apparente crolla all'improvviso e scoppia a piangere.

«Ti prego», dico asciugandole con le dita le lacrime che le solcano il viso. «Ti prego, non...»

«Ti ho sentito quella notte. Eri in crisi e gridavi nella mia stanza. Gridavi: "Per favore, svegliati. Se ti svegli, giuro che non ti tocco più, che non ti faccio più soffrire, che non mi farò più vedere, che starò lontano da te". Ed io il giorno dopo mi sono svegliata, e non ti ho più visto, né sentito.»

Adesso piange a dirotto. E io mi vergogno a morte di averla ridotta in questo stato.

«Non ce la faccio più», urlo. «Non ce la faccio più!»

Lo grido al mondo, lo grido a mia madre, lo grido ai miei amici, lo grido a Thomas, lo grido a Ethan, lo grido a Leo, lo grido a Bea, lo grido ai fan, lo grido ai giornalisti, lo grido a tutti i collaboratori della casa discografica, ma, soprattutto, a me stesso.

«NON CE LA FACCIO PIÙ!», urlo a squarciagola, come non ho mai gridato in vita mia.

If You StayDove le storie prendono vita. Scoprilo ora