14.3 Una lettera pericolosa

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L'aria era satura delle fragranze del mattino: il profumo della cornetteria era una gradevole constatazione della vita che andava avanti, nonostante la tragica morte della famiglia reale. Il marchese Tirfusama guardò Eleonora occuparsi di nuovi clienti e tirò un sospiro di sollievo, perché almeno quella donna, a tarda sera, avrebbe avuto un sonno tranquillo.

Si allontanò dal salone principale, diretto verso la sala secondaria dove sapeva di essere atteso, ma fu trattenuto alla vista di Stefania, la figlia maggiore della locandiera, salire le scale, diretta alla camera di Lavinia Lugupe con un vassoio su cui la madre aveva preparato una sostanziosa colazione. Più tardi si sarebbe recato da lei: sapeva che non avrebbe potuto alleviare il suo dolore, ma sperò che la regina avrebbe apprezzato la sua vicinanza in un momento simile, in cui la nobiltà di Selenia la rifuggiva come un morbo letale.

Superò lo spazio interno in cui nei giorni passati aveva condiviso i pasti con i fratelli De Ghiacci e sentì una stretta gelida afferrargli le viscere: il vecchio presentimento di aver commesso un grosso sbaglio ormai era diventato certezza; e il più recente incontro con i due principi glielo aveva confermato, sebbene lui non possedesse delle prove tangibili dei suoi timori.

Non bussò, una volta arrivato alla sala privata, ma aprì la porta come era solito fare quando sapeva che qualcuno lo attendeva lì. Con sua grande meraviglia, seduto al tavolo e con una tazza di caffè nero davanti e una di tè ancora fumante, era seduto il figlio di Donna Clara Riutorci.

«Ha detto la locandiera che il tè è per voi» esordì Pietro, con sicurezza.

Giampiero annuì e prese posto di fronte al giovane del Tuilla. Si scaldò le mani intorno alla tazza, anche e il clima estivo era tutt'altro che rigido; cercava, in verità, di provare a sciogliere quella stretta algida che gli avviluppava le interiora. Non poteva permettere che il Riutorci si accorgesse dei turbamenti del suo animo.

Sospirò, prima di sorseggiare lentamente quel tè ancora bollente.

«Se siete qui, devo immaginare che voi sappiate dell'incendio» disse, avviando la conversazione da lontano, ma già indirizzandola dove voleva che arrivasse.

Pietro annuì. «Siamo stati svegliati dalle grida. Io e mia madre alloggiamo in una taverna poco distante. Quando siamo arrivati al palazzo non ne era rimasto più nulla. Non ci credevo, pensavo che fosse opera di qualche illusionista... poi sono entrato nel cortile.»

«È solo cenere» commentò il marchese. «Tutto ciò che fosse opera umana è diventata cenere. Qualcuno dice che si tratta di un mostro di fuoco, qualcun altro che deve esserci una spiegazione razionale...»

«Uno spettacolo raccapricciante, a prescindere da cosa lo abbia provocato» disse cupo il giovane del Tuilla.

Giampiero fece ruotare il cucchiaino di metallo nella tazza di coccio, come cullandosi in un gesto meccanico e abituale mentre la situazione attorno a lui era tutt'altro che abituale. «Immagino che voi non siate qui per parlare dell'incendio di questa notte, a meno che non vogliate accusarmi di averlo provocato... anche se non saprei mai spiegarmi una tale accusa» disse, pacato. Sollevò lo sguardo verso il Riutorci, che portò la tazza di caffè fumante alle labbra e ne bevve un sorso.

«In parte avete ragione e in parte torto» asserì. «Non sono qui per accusarvi dell'incendio – perché mai avreste dovuto provocarlo? – bensì per parlarvene. Sono venuto a conoscenza di una cosa che nessuno sa.»

Il Tirfusama sbuffò, mal trattenendo una risata, e scaldò di nuovo le mani attorno alla sua tazza di tè.

«Non deridetemi, marchese, non sono una persona da sottovalutare» ribatté Pietro, quasi con stizza.

Selenia - Trono rovesciatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora