La stella di cemento

68 6 1
                                    

Giusy guardava le onde infrangersi sul canale che si immetteva nelle acque agitate del delta. Stava lì immobile, seduta su uno sdraio, nel giardino della villetta e respirava cercando di normalizzare il battito del suo cuore. Si era svegliata di botto per il solito incubo. Nella sua testa rimbombavano ancora le urla della sua voce bambina mescolate al ricordo della litigata che aveva fatto con la madre una volta rincasate dal funerale quel pomeriggio. Su un punto aveva ragione: era della sua esistenza che stavano parlando. Era una sua decisione. Prese tra le mani la stella che le avevano consegnato quel giorno: pesava più del cemento.

Era certa di voler passare la sua intera vita portandola appuntata alla giacca? Non era così che avrebbe voluto quella stella, non a quel prezzo. Si asciugò le lacrime e si perse a fissare l'acqua scura. Non voleva fare rumore e svegliare sua madre, tantomeno ricominciare quel discorso, di nuovo. Doveva prendere la corriera insieme a lei e lasciarsi un'altra casa, un'altra vita alle spalle senza voltarsi indietro? O doveva restare e combattere? Per Catalano? Per Fabio? Per i suoi colleghi? Per sé stessa? Per vendicare chi ci aveva rimesso la vita? Carsi era morto e non avrebbe nemmeno pagato i suoi debiti con la società. Dov'era la giustizia?

Conosceva bene quella sensazione che hai nel momento in cui non sai come fare a tirare un altro respiro. Ti senti qualcosa pesare sull'anima fino a schiacciarla. La signora con la falce colpisce sempre quando meno te lo aspetti. Le sembrava di vedersi: una ragazzina su un balcone, ma in una terra molto lontana, la Sicilia. Era poco più una quindicenne che ascoltava la musica con lo sguardo perso nel mare all'orizzonte. Sua madre le aveva tolto le cuffiette in malo modo.

«Bada a tuo fratello, ci sono molte sirene al cantiere.»

Era rimasta allibita a guardarla correre in strada e gettarsi giù dalla discesa. Aveva controllato suo fratello in camera sua, intento a completare l'ennesimo livello di un game boy. Non si sarebbe mai mosso di lì di sua volontà. Non intendeva starsene in casa ad aspettare. Sentiva come un blocco nello stomaco, all'improvviso: suo padre era in quel condominio.

Era scesa in strada in quel pomeriggio assolato di agosto e aveva corso anche lei mischiandosi alla gente impaurita o curiosa. Quando era giunta si era fatta largo nella folla: qualcuno urlava. Le sirene roteavano senza suono sopra i mezzi parcheggiati. Un intero muro della casa era crollato: il ponte affiancato era penzoloni nel vuoto. Diversi uomini erano aggrappati là sopra e i vigili del fuoco stavano cercando di farli scendere.

C'era un sacco nero davanti all'ambulanza, mezzo aperto. Gli occhi di quell'uomo le erano rimasti impressi nella mente: era come se stesse guardando l'inferno. Gli schizzi di sangue rappreso sulla faccia resa bianca dalla polvere. Non conosceva quell'uomo o, forse, se anche fosse stato suo padre, non l'avrebbe riconosciuto. Erano mesi che c'erano crolli in quel cantiere, tuttavia, nonostante le proteste, era ancora aperto. I soldi per mandarlo avanti puzzavano di marcio a chilometri, ma lui aveva così bisogno di quel lavoro: erano letteralmente senza soldi.

Quel giorno erano stati fortunati: suo padre aveva riportato qualche punto in testa e un polso slogato. Sua madre gli aveva impedito di tornare in quel posto, nemmeno per reclamare gli stipendi arretrati. Un mese dopo avevano preso una corriera, caricato tutte le loro cose su un camion e salutato l'Etna. Rimpiangeva la sua terra, la sua infanzia e gli amici, ma con gli anni aveva capito la decisione dei suoi genitori. Quel terreno si sgretolava sotto le fondamenta, nessun edificio avrebbe retto. Il padre aveva davvero rischiato la vita per portare il pane in tavola. La ditta dove lavorava fallì qualche mese più tardi. Ora, da adulta, comprendeva sua madre, allora era stato diverso. Inaspettato. Doloroso. Definitivo.

Questa volta aveva sentito lei stessa il mantello della morte sfiorarle il collo, non era un'ingenua. Sapeva fin troppo bene la fortuna che aveva avuto: in quel sacco per cadaveri avrebbe potuto finirci anche lei. Quella stella l'avrebbero consegnata a sua madre. Scacciò il ricordo del funerale dalla mente. Che occhi ha la morte? Quelli di chi lascia? Quelli di chi sopravvive? Quelli di chi spara e lo fa per uccidere? Chi era lei davvero? Giusy, la ragazza che guardava il mare con la musica nelle orecchie o l'appuntato scelto Parisi, in forze all'Arma dei Carabinieri? Ogni uomo ha diritto alla verità. E una volta che si conosce cosa cambia davvero? La morte si prende tutto: come una ladra passa nel cuore della notte, ruba quanto più di prezioso ci sia al mondo e per quanto ci sforziamo non la possiamo fermare.

Giusy sospirò. I flash scorrevano nella sua mente: quella pistola davanti a lei che sparava. Nella sua testa gli occhi stralunati di quell'uomo sarebbero rimasti per sempre. Poteva scappare; quel ricordo l'avrebbe seguita, al pari di quella stella. Poteva indossarla o meno, ma non fingere che non esistesse. Come un blocco di cemento sarebbe rimasta lì sulla sua anima a ricordarle che non c'è giorno che sia certo su questa terra. Ci sarà sempre qualcuno che spara e qualcuno che cade. E se lei era lì, era solo perché Catalano l'aveva fatta scendere da quell'auto prima che fosse troppo tardi.

Prese il laccio dal polso e si legò i capelli mossi e sudati in un crocchio poco sopra il collo. Un ciuffo riccio le scivolava indomabile sbattendo al vento. Rigirò quella stella tra le mani; la coccarda viola faceva risultare l'argento vivo del filo. Si infilò la giacca d'ordinanza che aveva recuperato dal salotto sulla pelle nuda e sudata, staccò la stella dalla coccarda e provò ad avvicinarla al taschino. Si alzò faticosamente appoggiandosi alle stampelle. L'immagine di quella donna riflessa nella vetrata la guardava terrorizzata, quasi avesse paura di ciò che vedeva, di accorgersi che quella ragazza che ascoltava musica sul balcone non esisteva più, come se si fosse persa nelle curve della vita.

Puoi smettere mai di essere un carabiniere? Puoi davvero lasciarti tutto alle spalle e continuare a vivere come avevi sempre fatto prima? Guardò quel pezzo di stoffa viola tra le mani. Fu un lampo a ciel sereno. Era certa di aver visto un fazzoletto dello stesso colore, nel suo sogno. Non faceva che ripeterlo in quelle notti agitate, quando il sonnifero smetteva di fare effetto. Lo portava Carsi nel taschino della giacca, ma quel morto non era Carsi, ormai ne era certa: era il suo inconscio a sovrapporre le facce. Tornò in salotto si avvicinò alla tavola e aprì il portatile che Fabio le aveva lasciato qualche giorno prima. Cercò il suo nome, ma non faceva che trovare notizie sui recenti fatti della cattura di Carsi. Ritrovò un paio di testate giornalistiche della sua zona. Scelse quella che le sembrava la più storica, ignorò la sua foto in divisa sulla pagina principale e cominciò a cercare notizie su una nevicata abbondante risalente a diversi anni prima, ipotizzò dovesse trattarsi del '95 o forse del '96. Non impiegò molto a trovare quelle notizie, quindi aggiunse qualche parola chiave e dopo un paio di tentativi eccola lì davanti a lei la conferma.

"Una bambina del paese è stata estratta ieri dopo dieci ore di grande paura da un pozzetto nel cantiere fantasma dell'ospedale incompiuto alle pendici del vulcano" lesse Giusy a bassa voce. Non c'era la sua immagine, né il suo nome, ma una foto di sua madre che teneva tra le braccia uno scricciolo dai capelli neri e ricci avvolta in una coperta argentata.

"I bambini stavano giocando a pallate su una balconata quando la ragazzina a causa della neve ha perso l'appoggio ed è scivolava cadendo in un pozzetto sottostante. Le travi che bloccavano l'apertura si sono spezzate, probabilmente bagnate per via della neve e la bambina è precipitata nell'apertura, profonda alcuni metri. A dare l'allerta è stato il suo compagno di giochi." Turi. Salvatore. Giusy leggeva incredula. L'articolo continuava descrivendo le complicate operazioni di salvataggio, mentre leggeva iniziò a ricordare: erano soltanto flash, ma lentamente cominciava a vedere, a capire. La barretta di cioccolata mangiata in mezzo al fango. Il walkie talkie. La voce della mamma e del capo dei pompieri. Il freddo, la paura. Rabbrividì stringendosi addosso la giacca dei carabinieri. La sete. Si staccò dal computer, con le stampelle raggiunse un bicchiere lasciato dalla madre sul lavandino. Lo riempì e poi tornò al computer. Riguardò la foto perplessa. Perché non c'erano i carabinieri o la polizia? Lì c'era un cadavere! Poi il dubbio la travolse: l'aveva mai detto a qualcuno? Aveva mai confessato a qualcuno di non essere rimasta sola in quel pozzetto?

«Ne vuoi un po'? Deve essere tanto tempo che non mangi.» Le tornò in mentre la sua voce bambina che offriva la cioccolata a quell'uomo immobile abbondato, dimenticato.

«C'è qualcuno lì con te, Giusy?» aveva chiesto il vigile del fuoco. Lei non gli aveva risposto. Forse aveva pensato che lei avesse battuto troppo forte la testa. Era così? Si era immaginata un cadavere? Nell'articolo non ne parlavano affatto e quel corpo dal pozzetto certamente non ci era passato. Che ci faceva lì? Chi era? Era ancora laggiù da solo? Non aveva affatto la faccia di Carsi, ora ricordava i suoi lineamenti gonfi e distorti. Le era sembrato spaventato, come lei stessa era in quel momento. Che brutta morte doveva essere stata! Solo, al buio, al freddo.

Chiuse il computer e tornò a letto e si stese faticosamente a fianco della madre cercando di non fare rumore. Aveva ancora la giacca addosso e quella spilla appuntata. Il suo cuore batteva così forte. Nessun uomo può scappare in eterno alla morte; i nostri fantasmi ci rincorrono sempre e non smetteranno. Forse era solo stanca di scappare. Giusy si perse a guardare il soffitto finché sprofondò nell'oscurità.

L'uomo nel fiumeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora