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Stamattina ho parecchi appuntamenti.
Tra l'incontro con delle agenzie per regolarizzare i documenti, e per chiedere informazioni su come avverranno le assunzioni del personale, si è fatta già l'ora di pranzo.

Tokyo non è come la immaginavo.
Diecimila volte meglio.

Che dire di quest'isola.
I molteplici colori, le tradizioni, i templi caratteristici, i ruscelli così limpidi e colmi di carpe Koi.
Ma specialmente quell'aria così diversa che profuma tanto di libertà.

Dopo qualche ora, mi ritrovo allungata sopra una panchina.
Tra la continua ansia nel dover pronunciare correttamente il giapponese, e quella di fare una bella figura con i vari redattori: mi ha letteralmente tolto ogni forza vitale.
Direi che per oggi i doveri possono aspettare. È ora di dedicarsi allo svago.

Faccio qualche acquisto, visito diversi templi e cammino per la città con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. Beh, almeno fino a quando non sento lo stomaco brontolare.
«Diamine.» sbuffo guardando l'orologio, sono quasi le sette di pomeriggio e non ho consumato nemmeno un pasto.
È ora di provare i loro piatti caratteristici.
Inizio a guardarmi in giro ed entro nel primo locale che mi ispira fiducia.

È un'ampia locanda, con interni in legno e le sedie in pelle bianca.
Le narici vengono inizialmente invase dall'aroma di soia e altre spezie locali, poi, una volta preso posto, riconosco l'odore dei fiori di ciliegio posizionati sopra ai rispettivi tavolini, che mi fanno sorridere.

Aspettando che un'anima pia si accorga della mia esistenza, noto che la maggior parte dei clienti sono uomini d'affari.
Tutti ordinati e silenziosi, concentrati a picchiettare le mani nelle piccole tastiere dei propri portatili in una maniera alquanto anomala.

Passano svariati minuti e, come non detto, nessuno mi sta ancora cagando.
Sbuffo e mentre appoggio un gomito sul tavolo, una luce sotto di esso si illumina.
«Ah...» credo di aver capito il perché.
Che idiota.

Gli ordini vengono effettuati da uno schermo touchscreen posto al centro del tavolo.
Palese, no?
Dopo essermi accertata che nessuno abbia notato la mia ignoranza, scelgo diverse portate e clicco il pulsante d'invio.

Nell'attesa, appoggio il mento sopra le mani e do un'occhiata fuori dalla vetrata.
Vengo catturata dalla vastità dei colori del tramonto e mi sento più rilassata, in pace e fin troppo eccitata da tutto ciò che mi circonda.

Voglio godermi ogni istante di questo nuovo inizio.
Un inizio che vivrò per mia scelta. Una solitudine che scelgo di vivere da sola e non perché qualcun altro l'abbia deciso.

Quell'attimo di pace però, viene interrotto da un fastidiosissimo rumore di vetri schiantati a terra.
Mi giro e i miei occhi osservano un cameriere accovacciato di spalle, intento a raccogliere ciò che rimane di presunti bicchierini di sakè, mentre la titolare gli urla addosso.

Non riesco a vedere bene il volto del ragazzo, ma sicuramente me lo immagino rosso dalla vergogna.
Poverino però.

Fino a qualche mese fa anche io ricoprivo quella veste.
Per circa otto anni ho servito i clienti in un ristorante a Parigi.
Conosco bene il disagio che si prova nel far cadere la portata di un cliente, era capitato anche a me e ci sono tre tipi di reazioni quando qualcuno ti urla davanti a tutto il locale.
La prima, è sferrargli un manrovescio, togliere la divisa e arrivederci e tante grazie.
La seconda è sorridergli, morderti la lingua mentre gli auguri che il Signore lo fulmini.
L'ultima, e quella più ovvia per il 70% dei lavoratori bisognosi, è quella di annuire a testa bassa e perdere la dignità.

Io inizialmente rientravo nella terza categoria, ma con il tempo sono riuscita a farmi rispettare e scenate di questo tipo, non le ho più vissute.
Ma qui siamo in Giappone, non in Europa.
E da come che ho sempre capito, qui la mentalità è ben diversa.

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