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Sono stremata.
E un tantino brilla.
Ma molto più leggera.

L'ultima volta che ho ballato in questo modo, avevo ventidue anni.
Mi ero appena laureata e, poco prima di entrare a casa, ero passata a comprare una bottiglia di vino.
Ho ballato per tutta la sera, sola con il mio stereo, in quelle quattro mura della mia camera.
Dio che ricordo imbarazzante.
E alquanto deprimente.

«Tieni.»
Alzo la testa da sopra il cuscino e vedo una tazza grande, piena di caffè.
«Proprio quello che ci voleva, grazie.» l'afferro mettendomi seduta e appoggiando le spalle alla testata del letto.

Non dice nulla e si va a sedere sulla poltrona mentre si accende l'ennesima sigaretta e sorseggia anche lui il caffè.
Da un'ora a questa parte ne avrà fumante come minimo sei.

Del suo sorriso?
Solo un lontano ricordo.

Non ha fatto altro che uscire in balcone e controllare l'orario.

«Sei nervoso?» domando senza riflettere.
Alza lo sguardo dalla tazza che gli copre le labbra e, dopo essersele leccate lentamente, la ripone sopra al mobile, ignorandomi.
Mi sembrava strano il contrario.

Porto le ginocchia  al petto e ci infilo nel mezzo la testa, sbuffando.

«Un po'.» alla fine risponde, sorprendendomi.
O la va o la spacca.
«Come mai?» oso.

Solleva un sopracciglio e corruga l'altro come per farmi intendere che sarei una povera illusa nel sperare in una sua risposta.
Ma non stavolta.

Imito la sua stessa espressione «Inutile che mi guardi in quel modo, mi ritrovo anche io in questa situazione e penso proprio che sia il caso che tu mi dia qualche spiegazione.»

Ci ritroviamo per qualche secondo, o minuto, con gli occhi puntati contro.
Tipo la suspense dei cowboy prima di impugnare l'arma.

Mi dispiace ma non perderò questa sfida.
E mi ritrovo a gioire internamente, quando lo vedo sbuffare e chiudere le palpebre.

«Cosa vuoi sapere? Il motivo per cui sia nervoso o il perché siamo qui?» domanda spegnendo la sigaretta nel bicchiere ormai vuoto.
Entrambe in realtà.

«Cos'è questo posto?»
Alza un lato delle labbra, appoggiando i gomiti sopra le ginocchia aperte.

«È una sorta di rifugio, la casa di tutti quelli che finirebbero in galera o in qualche clinica psichiatrica.» mi osserva, incrociando le mani sotto al mento.

Sembra stia aspettando una mia reazione.
E a dirla tutta, quelle parole mi hanno leggermente turbata, ma non voglio che lui lo sappia.
«E cosa fanno... qui?» sgranchisco la voce per nasconderne il tremolio.

«Sfogano la loro pazzia, il loro lato perverso, le loro dipendenze. Si sentono liberi di farlo.»
Corrugo la fronte «Ma non è illegale?»
«Lo è, ma grazie allo Yoshida, da dieci anni a questa parte, la criminalità in Giappone è scesa del 65%.»

Trovo tutto ciò molto ridicolo.

«Nessuno ne è a conoscenza?» cavolo, è pur sempre un hotel alla portata di tutti!
«Alla reception c'è del personale qualificato che permette il soggiorno solo a chi viene accompagnato da uno che ne fa parte.»
Spalanco le palpebre.

Lui ha accompagnato me, quindi...

«T-tu ne fai parte?» balbetto e questa volta non mi importa di mostrarmi preoccupata.
«Fino a qualche mese fa, sì.»
Ah.
Bene.

Troppe, molteplici domande iniziano a frullarmi in testa.
Un drogato, un depravato, un folle.
In quale categorie rientrerà?

«E ne sei uscito... per quale motivo?» chiedo portando un ciocca dietro all'orecchio.

𝐂𝐎𝐂𝐎𝐍𝐔𝐓Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora