𝟏𝟕

498 59 37
                                    




                                    𝑹𝒖𝒊



«Quanti ricordi, eh?»
Annuisco scendendo dall'auto.
«Sei sicuro che non ci crollerà in testa?» alzo un cipiglio, guardando la casetta di legno davanti a noi.
Più che casetta, baracca.
Me la ricordavo decisamente più stabile.

«L'ho costruito io stesso quindi mi stai proprio offendendo.»
Alzo gli occhi al cielo scuro e sbuffo «Come vuoi, ma la svegli tu a quella lì.» indico l'auto alle nostre spalle.

Circa due ore fa, è piombata in uno stato quasi vegetativo.
E come non biasimarla.
Quel grandissimo pezzo di merda ci stava quasi per uccidere e soprattutto, ha seriamente deciso di prendermi per il culo.

Lascio che sia Hiro ad occuparsi del ghiro e se non ricordo male, la chiave dovrebbe trovar- eccola!
Nascosta sotto la solita tegola.

Apro la porta e arriccio il naso per il tanfo di umidità che aleggia qui dentro.

Un enorme ed unica stanza, un letto improvvisato con della paglia, un camino e il tatami al centro.
La costruì Hiro per insegnarmi di nascosto tutte le tecniche dell'aikido.

Tre volte a settimana per circa otto anni, ingannavamo mio padre con la scusa di andare a fare un giro al centro, meritandomi un gelato per l'intenso studio di tutti i giorni.

A mio parere non c'era da nascondergli proprio nulla dato che era di me che si stava parlando.
Ma Hiro preferì mentirgli per paura di un suo rifiuto.
«Sarebbe un'enorme spreco se te lo vietasse, hai delle capacità straordinarie.» mi disse quando avevo sì e no nove anni.
Ma d'altronde, non ho mai dato peso ai suoi complimenti.
Non davo peso più a niente.

Quello fu il periodo in cui iniziai a trasformare la delusione in odio e per questo motivo usai l'aikido come una sorta di sfogo.
Era l'unica eccezione, a parte Aru, a farmi sentire vivo.
L'aikido tirava fuori tutto il dolore, la rabbia.
Aru invece ne era la cura.

«Certo che la pupetta è proprio in coma.» ha l'affanno mentre la posiziona nel letto di paglia.
Lo ignoro continuando a mettere i ceppi nel camino.
«Orca la peppa!»
Mi acciglio nel sentire quella sottospecie di esclamazione ridicola.

Ha sempre evitato di imprecare, insegnandomi che la volgarità e l'arroganza non rende l'uomo più forte o temibile.

Lo vedo accovacciato sulle ginocchia mentre illumina con la torcia del telefono le sue... gambe?
«Ma che cazzo fai?» butto a terra i pezzi di legno, alzandomi.

Si vede che ho appreso appieno i suoi insegnamenti.

«Corri a prendere del disinfettante e parla a bassa voce. Maleducato.» mi fulmina con lo sguardo.
«Disinfettante?» alzo un cipiglio «Hai per caso la valigia di Mary Poppins nascosta da qualche parte?»
Non c'è nemmeno l'impianto elettrico, figuriamoci un kit medico.
«Purtroppo per me no, ma in quello scaffale c'è del rum.» indica un mobiletto impolverato.

Prima di girarmi, noto che illumina il suo ginocchio.
Spalanco le palpebre.
Merda.
Mi ero dimenticato della sua ferita.
«È profonda?» chiedo avvicinandomi.

Raddrizza la orecchie e si gira per guardarmi con un cipiglio sorpreso, seguito subito dopo da un ghigno beffardo.
«Tu intanto prendimi del rum, poi vedremo.» sorride come se avesse appena scoperto chissà cosa.

Faccio come chiede e noto che la bottiglia è già dimezzata «Venivi qui per allenarmi o per darti all'alcool?»
«Dato che dovevamo tenere un segreto, ho pensato che tenerglieli nascosti ben due non avrebbe fatto la differenza.» stringe le labbra in una linea, come un bimbo che si giustifica.

𝐂𝐎𝐂𝐎𝐍𝐔𝐓Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora