CAPITOLO XXXV: RIVENDICAZIONI

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CLAUDIO

Guardo questo ufficio vuoto, ci sono solo la scrivania, la sedia girevole, il tavolo di cristallo al centro dell'ampia stanza e la scrivania senza i miei libri. Domani è il grande giorno, parto verso una nuova avventura. Sarà che io non so più stare fermo in un posto più di tanto (in questi anni sono stato direttore prima qui, in America, poi in Francia, in Inghilterra e infine sono ritornato negli States), sarà che dopo quello che è successo sono cambiato, profondamente, adesso l'ansia mi sta divorando e sorrido un po' se penso a tutte le volte che ho detto ai miei studenti che non dovevano trasferire le loro emozioni sul lavoro, specialmente ad una. Ma va bene, lasciamo perdere! Mi guardo intorno e mi scorrono davanti questi cinque anni, mi sembra di guardare un film, è come se questa vita non mi appartenesse più, come se questo corpo appartenesse a qualcun'altro. E' vero, di strada ne ho fatta tanta rispetto a quando sono arrivato e quando, tre mesi fa, il mio analista e il direttore del centro mi hanno detto che mi dichiaravano ufficialmente guarito mi si sono forse inumiditi gli occhi. E' vero, non sono più un alcolizzato e non sono depresso, ma ho perso quello che di più caro avevo. Ho perso Mattia e non ho saputo amare Alice e quel figlio che forse il cielo ci aveva mandato per consolarci della perdita del nostro più grande amore.

Quando sono arrivato qui mi sono gettato a capofitto nel lavoro e la sera, quando tornavo a casa, mi stordivo, per non pensare, con bottiglie intere di scotch e grappa, poi cadevo in catalessi e la mattina ricominciavo col lavoro. Alice mi ha chiamato fino allo sfinimento, si è accorta più di una volta che ero ubriaco, come in un sogno ricordo quando mi supplicava di tornare.

"Claudio, lo affronteremo insieme questo dolore! – ripeteva con voce sempre più fievole – Ci sono tante novità in Istituto e nella nostra vita! Ma voglio dirtele di persona!".

Io ridevo come uno scemo e continuavo a mandarla a quel paese.

"Claudio, ritorna! – non si arrendeva – Ho bisogno di te!".

"Ma come! – la deridevo – Ora che non ci sono io, sei il Supremo e nemmeno sei contenta! Avrai già messo le tue leggi, ognuno entrerà all'ora che gli fa più comodo, ci saranno feste e festini e gli specializzandi faranno il bello e il cattivo tempo!".

"Vaffanculo, Claudio!" mi aveva detto quella sera e da allora non l'avevo sentita più.

Poi un giorno, dopo un anno che ero arrivato negli States, mi aveva chiamato il vecchio capo.

"Claudio! – aveva esordito – Io lo so che sei miglior medico legale che è sulla piazza, ma ho saputo che l'altro giorno, mentre incidevi il corpo di quella poveretta, hai toppato":

Avevo taciuto, aveva ragione, la mia incisione ad Y, che era stata sempre un segno perfetto e nitido, assomigliava ad uno sgorbio scomposto ed arrangiato.

"Che ti succede, Claudio?" mi aveva chiesto con tutta la solidarietà del mondo.

Non avevo risposto nemmeno alla sua domanda, così aveva incalzato:

"Mi hanno detto anche che spesso puzzi di alcool e anche il tuo passo è poco stabile".

Non ce la facevo più a tenermi tutto dentro, così gli ho vomitato addosso la mia rabbia e il mio dolore:

"Tu che avresti fatto se in pochi giorni avessi perso un figlio che amavi più di te stesso, tua moglie e un altro figlio in arrivo?".

"Fatti aiutare, Claudio! – aveva detto risoluto – E poi corri a riprenderti quello che ti appartiene!".

"Ho perso tutto! – avevo mostrato la mia resa – Non lo riavrò mai più!".

"Non riavrai Mattia! – aveva insistito – Potrai però riavere tua moglie e l'altro figlio!".

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