3 anni dopo

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Salii in fretta le scale, mentre i raggi tiepidi del sole scendevano dietro le colline davanti al grattacielo. Un lembo della sciarpa scivolò per terra e il mio piede per poco non lo pestò. Imprecai, sollevandolo per attorcigliarlo di nuovo attorno al collo. Tenni ben strette le cartelline con il braccio sinistro e mi affrettai a finire di salire quelle maledette scale asettiche. Il suo ufficio era situato nell'attico e l'ascensore aveva deciso di rompersi proprio al quindicesimo piano. Avrei dovuto fare cinque piani a piedi, con il tacco a spillo e un cappotto lungo e pesante. Talvolta essere una delle tante sottoposte di un uomo potente e sgarbato era estenuante, le mie colleghe inviadiavano la mia tenacia, nessuna di loro aveva mai il coraggio di portargli i resoconti del mese. Girava voce che, quando si arrabbiava, lanciasse oggetti contro il muro o contro le finestre. Non lo avevo ancora incontrato di persona, di solito mi era soltanto permesso di lasciare i documenti alla sua segretaria personale e poi fuggire via.
Raggiunsi l'attico con il fiatone e le ascelle pezzate di sudore. Intravidi in lontananza Grace, l'unica donna che riusciva a sottostare alle cattiverie di uno degli uomini più potenti di allora. -Ec...ecco i resoconti...-Dissi tra una boccata d'aria e l'altra. La donna mi squadrò da capo a piedi, con aria schifata. Accavallò le gambe, racchiuse in morbide calze nere. -Sei orrenda.-
Distolsi lo sguardo, passandomi la mano sui capelli arruffati. -L'ascensore è rotto.-
Lei sbuffò. -Dio mio, datti una sistemata. Il capo vuole vederti.-
Strabuzzai gli occhi e la saliva si bloccò in gola. Mi raddrizzai, scuotendo la testa. -Me? Deve esserci un errore.-
Lei fece schioccare la lingua sul palato. Il suo chignon mi diede l'impressione che stesse per scoppiare da un momento all'altro per quanto fosse stretto. -Purtroppo no. Puoi già entrare, anzi sei in ritardo.-
Mi sfilò dal collo la sciarpa e mi intimò di darmi una mossa. Io mi schiarii la voce e mi stirai i pantaloni con i palmi sudati delle mani. Il nostro capo aveva deciso proprio quella mattina di incontrarmi, momento perfetto.
Mi avvicinai alla porta in vetro opaco e vi bussai con le nocche. Le ginocchia avevano già cominciato a tremare, Freia si sarebbe fatta qualche bella risata quella sera. -Entra.- Una voce secca e profonda provenne dall'interno. Sobbalzai e diedi una piccola spinta. L'ufficio era enorme, tutto completamente grigio. Dai mobili, sopra cui erano esposti dei libri antichi, ai due divanetti al lato della parete. Davanti alla porta si ergeva un'enorme scrivania bianca, che portava sopra un computer più grande di me e qualche foglio sparso. Alzai lo sguardo, stupita, e incrociai gli occhi dell'uomo davanti a me. Era giovanissimo, attraente. Una piccola cicatrice attraversava il suo occhio destro, che, in effetti, era di un colore più spento e bianchiccio rispetto all'altro. Buttai giù la saliva e cacciai via qualsiasi pensiero su quella cicatrice. -Siediti pure.-
Allungò la sua mano perfettamente curata. -Lì.-
Mi avvicinai alla poltroncina e mi ci fiondai sopra, facendo anche troppa confusione. Mi vergognai di quanto fossi goffa. -Lavori qui da poco, giusto?-
Annuii.
-Cosa facevi prima?-
-Studiavo...- Mi morsi le labbra.
-Sto cercando una nuova segretaria personale, oltre a Grace. Mi hanno fatto il tuo nome.-
Mi accigliai. -Chi?-
-Non ha importanza.-
Sospirai. -Significa che lavorerò a fianco di Grace? Qui nell'attico?-
L'uomo intrecciò le dita tra di loro. Chinò la schiena in avanti. -Esatto.-
Tossicchiai. -Scusi se mi permetto...-Cominciai, titubante. -ma ci sono altre persone che lavorano qui da prima di me. Non mi sembra giusto...-
Lui alzò una mano, scurendosi in volto. -Non voglio essere contraddetto né ho richiesto la sua opinione. Deve soltanto accettare. Firmi qui.- Tirò fuori da un cassetto un foglio, sbattendolo davanti a me. Fui presa alla sprovvista. -Proprio qui.- Indicò uno spazio vuoto. Mi sembrò strana quella improvvisa insistenza, senza un senso apparente. Ma, dopo aver incrociato il suo sguardo serio, mi decisi a firmare. Non lessi nemmeno cosa c'era scritto, scrissi il mio nome e cognome e gli passai il foglio. Lui lo guardò e un piccolo ed impercettibile sorriso comparve sulla sua faccia. Mi insospettii, senza però fare domande. -Perfetto. Può andare.-
Non mi guardò. Sollevò due dita, sventolandole in aria. -Domani alle otto qui.- Continuò, mentre io mi alzavo dalla sedia. Annuii, piegando in avanti la schiena. -Odio chi non è puntuale.- Aggiunse, sfogliando dei documenti sulle sue gambe muscolose. -Ma sono sicuro che non mi deluderai.- Furono le ultime parole che sentii prima di uscire dal suo ufficio. Mi chiusi la porta alle spalle e ripresi finalmente fiato. Grace mi osservò con cipiglio. -Allora?-
Ingoiai la saliva, quel poco che era rimasto. -Sono la tua nuova collega.-
I suoi occhi divennero due palle bianche dallo stupore. Strinse la matita tra le dita talmente forte da spezzarla. Un ciuffo di capelli neri come la pece sfuggì all'impalcatura sulla sua testa. -Ah. Non lo sapevo.-
Mi rigirai i pollici tra le dita, imbarazzata. Grace già mi odiava. Avrei lavorato con l'ansia e la pressione e in più con la collera della mia collega. Sospirai, quando fui spinta in avanti dalla porta che si apriva. Comparve il nostro capo, che mi guardò confuso. Non disse niente. -Grace, lei da domani sarà al tuo fianco. Faccio preparare una postazione proprio qui di fronte a te.- Camminò verso di lei. -Mi auguro che insegnerai a lei tutto quello che sai.- Picchiettò le dita sulla sua scrivania, alzando un sopracciglio. Lei annuì, tenendo gli occhi sempre bassi. Quell'uomo terrorizzava chiunque si mettesse di fronte a lui. Forse era colpa della sua cicatrice oppure di tutto il potere che aveva in mano. -Quanto a te.- Mi squadrò da capo a piedi, incuriosito più che minaccioso. -Esigo i capelli legati. Ben...legati.- Lanciò una lunga occhiata a Grace, che impallidì subito. Poi scomparve dietro la sua meravigliosa porta in vetro e lasciò dietro di sé un assordante silenzio. Mi leccai le labbra secche e osservai la mia nuova collega cercare di non implodere. Sembrava proprio che le mancasse l'aria. Era diventata quasi del colore del muro, perfino più pallida e bianca di me. Scossi la mano davanti a lei, ma non batté ciglio. Indietreggiai e decisi di andarmene, dando il meno fastidio possibile. Dal giorno seguente avrei avuto a che fare con lei e con il capo tutti i dannati giorni.

Sotto un cielo pieno di noiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora