Amore e Tormenta

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Sospirai, mettendo piede per la prima volta negli uffici della famiglia Priest. Era tardo pomeriggio, dovevo soltanto lasciare la scatola con le mie cose dentro. Alla fine Jack mi aveva convinta ad essere la segretaria di Adrian, nonostante gli ultimi attriti. Ma gli affari dovevano essere messi davanti a tutto ed io funzionavo da anello congiuntore tra i Turner e i Priest e i litigi o gli scontri non contavano nulla, se c'era di mezzo il denaro. Camminai lungo un corridoio, affiancato da vetri trasparenti, attraverso i quali si potevano vedere gli uffici al loro interno. Le luci erano quasi tutte spente, in lontananza sembrava essercene una accesa, ma era l'unica stanza senza vetri trasparenti. Era chiusa e non potevo vedere cosa ci fosse dentro. Sicuramente era l'ufficio di Adrian, odiava essere osservato. Finalmente raggiunsi una scrivania vuota e pensai fosse la mia. Poggiai sopra il mio scatolone di roba e iniziai a tirare fuori tutto quello che di solito utilizzavo a lavoro, un'agenda, un calendario, un portapenne fucsia, una lunga penna ornata di piume blu, una calcolatrice e una spillatrice. Mi morsi il labbro, pensando se mettere o meno la foto di me da piccola con papà e mamma. Ogni volta era come un pugno allo stomaco, rivivevo sensazioni strane e contrastanti. La nostalgia, la felicità, la malinconia...poi la rabbia. Rigirai quella piccola cornice tra le dita, pensando a cosa stesse facendo in quel momento mio padre, se avesse riniziato a bere, se fosse finalmente felice. Poi alzai gli occhi al cielo e sorrisi, c'era mamma a vegliare su di noi.
-Ti sei già ambientata?-
Scattai in aria come un topo in trappola. Riuscii a riacciuffare in tempo la cornice che mi era scivolata di mano. Mi misi una mano sul cuore, respirando con affanno. Mi aveva spaventata. -Dio mio, Adrian. Cazzo!- Esclamai, poggiando, tremante, la foto sulla scrivania.
-Scusa, non pensavo di farti così tanta paura.- Sghignazzò. Era dietro di me, proprio alle mie spalle. Sospirai, irritata dalla sua presenza. -Ho finito di mettere la mia roba. Bel posto di merda, comunque.-
Lui strabuzzò gli occhi, scioccato. Mi ero voltata proprio per guardarlo. Aveva la camicia nera leggermente sbottonata, quel poco da lasciar intravedere una collana argento che brillava sul suo petto scolpito. Sembrava avere i capelli bagnati, separati da una divisa nel mezzo e mossi. Era terribilmente affascinante. Qualsiasi ragazza o ragazzo si sarebbe gettato ai suoi piedi, invocando chissà chi per essere soltanto sfiorato dal suo sguardo micidiale. Deglutii con forza. -"Bel posto di merda?" Tutto qui?- Rise. -Sei sempre stata troppo dolce, Melahel.-
Sbuffai. -Esatto. Hai proprio ragione.- Sforzai un sorriso sarcastico. -Infatti me ne vado subito, non posso perdere tempo con te.-
Feci per superarlo, ma la sua mano si mosse velocemente, stringendo il mio braccio. Il suo corpo, puro marmo, non accennò nemmeno a un movimento. -Stasera ti aspetto, eh.-
Deglutii ancora. Speravo che si fosse dimenticato di tutta quella storia. -Adrian, possiamo fingere di non aver mai scommesso su quanto rimorchiamo? È avvilente.-
Sputò fuori l'aria. La sua mano si tolse dal mio braccio e fu allora che notai un tatuaggio nuovo: "Amore e Tormenta".
-Tesoro, sai già che perderai? Ti vuoi ritirare?-
Quella sua voce da strafottente e quel suo atteggiamento da presa in giro mi facevano ribollire il sangue nelle vene, sentivo pompare dentro di me la voglia di fargli vedere quanto fossi figa anche senza di lui. Ed ecco che la mia lucidità veniva sempre meno davanti ad Adrian. Dovevo pensare a come stare lontano da lui, a come avrei fatto a liberarmene. E invece stavo lì, come una stupida, a ringhiare contro il cane più grosso. Idiota, scappa ora! -A stasera, coglione.- Conclusi, togliendo il mio braccio dalla sua presa. Affrettai i passi, sperando che non mi fermasse un'altra volta, ma non lo fece. Non lo fece perché semplicemente aveva ottenuto quello che voleva: darmi fastidio e coinvolgermi in un gioco così infantile.

Quella notte avevo preso in prestito uno dei vestiti di Freia, che lei definiva proprio "da rimorchio". Era corto, riusciva a coprire a mala pena le mie natiche e brillava come una palla da discoteca, tempestato di piccoli brillantini argentati. Ai piedi avevo deciso di indossare un paio di sandali bianchi, che salivano come serpenti fino a metà polpaccio. Il tacco era largo e alto e la punta squadrata. Avevo deciso di lasciare i capelli sciolti, leggermente mossi, che mi cadessero sulle spalle. Freia, invece, indossava un completo rosso con la pancia scoperta. Eravamo due belle strafighe quella sera e gli sguardi dei presenti ce lo confermarono.

Sotto un cielo pieno di noiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora