. 4 . Dal passato, nuovi fantasmi
Nell'istante in cui l'aveva veduto, un gorgo vischioso, come un mulinello di acqua fetida, le aveva rimescolato i pensieri.
Ogni cosa di Eìos richiamava il suo defunto sposo: i tratti del viso, levigati come quelli di una statua bronzea; il colore degli occhi, fessure aperte su di un'amina inquieta; la fierezza delle spalle, l'atteggiamento padrone e quel sorriso insolente del peccatore che non cerca redenzione, ogni cosa, tutto era ritratto perfettamente, come da un pittore sapiente che coglie attraverso i tratti anche l'essenza del modello. Egli era la sua immagine duplicata, il suo fantasma tornato dal passato per torturarle l'anima.
Quando a sedici anni, appena compiuti, Leria, della nobile casa di Mavìm, era andata in sposa al ricco e possidente Esem di Mikra, l'aveva creduto il coronamento del romantico sogno di fanciulla, l'amore incondizionato del fulgido cavaliere delle epopee narrate dai cantori.
In realtà quello sposalizio di romantico aveva ben poco: esso non era stato altro che un buon accordo stipulato dalle famiglie per rimpinguare le proprie ricchezze e dare maggior lustro ai nomi delle rispettive casate. Leria ed Esem si erano conosciuti solo il giorno delle nozze ed avevano scoperto ben presto le distanze caratteriali che li avrebbero resi estranei per sempre.
L'istinto prevaricatore e distratto di lui, nonché l'altezzosa prosopopea di lei, avevano divaricato le loro esistenze, colmando la distanza tra le anime con uno strato spesso di disprezzo e noncuranza, un veleno stipato e purulento, che li aveva resi nemici costretti nella stessa dimora.
A nulla era servita la nascita di Miran, seppure attesa e desiderata da entrambi: dal padre come erede e vanto della propria stirpe, dalla madre come occasione salvifica per la propria esistenza corrotta.
Per tutti quegli anni, in cui avevano condiviso la medesima cella, Leria aveva patito frustranti umiliazioni, tradimenti e menzogne; i profumi di altre donne nella trama delle sue camicie. Ma ciò che più l'aveva ferita, come la punta di uno spillo che continua a sfregare la pelle sottile, era stato lo scherno con cui Esem si prendeva gioco del suo pudore, della sua difficoltà a concedersi ai tocchi di lui, alle sue necessità carnali.
L'aveva accusata di una frigida distanza, che lo costringeva a cercare altrove il calore di un corpo di donna, e lo aveva ripetuto così tante volte da imprimerle la stessa convinzione dolorosa, fino a renderla totalmente incapace di donarsi spontaneamente.
Aveva trascorso così, Leria, tutti quegli anni con la sola consolazione di un figlio che amava più di sé stessa.
Fino a quando anche quell'instabile quiete si era spenta, il giorno in cui Esem le aveva rivelato, senza alcun rispetto, né la mediazione di parole accorte, che Eìos era suo figlio.
- Non permetterò mai che il tuo bastardo viva sotto lo stesso tetto di mio figlio! - gli aveva urlato, con una rabbia animale e gli occhi spiritati, quando aveva appreso la sua intenzione di legittimarlo.
- Io sono tuo marito, signore e padrone ... - le aveva intimato, - ... E tu non hai alcun diritto di opporti al mio volere! - le aveva ricordato, con la rabbia di lei riflessa nella propria voce. - Quando le pratiche burocratiche saranno espletate, Eìos porterà il mio nome, esattamente come Miran! - aveva terminato, per poi voltarle le spalle e lasciarla sola ed impotente.
- Che tu muoia maledetto ... - erano state le sue parole mormorate, mordendosi le labbra e lasciando mescolare sangue e lacrime.
E maledetto era morto, Esem, mentre, al galoppo forsennato, recava all'ufficiale del registro civile, una dichiarazione firmata di suo pugno, per manifestare le proprie volontà.