. 20 . Il fiume dell'ira

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. 20 . Il fiume dell'ira

Le settimane che erano seguite alla partenza di Eìos per la provincia di Agharr le avevano insegnato cosa fosse la mancanza!
Nonostante avesse fatto di tutto per impegnare ogni momento della giornata con diverse occupazioni, l'assenza di lui le era apparsa concreta e tangibile, come una lettera di inchiostro impregnata nella trama di una pergamena.
Non era una sensazione, un sentimento; era, piuttosto, un malessere sottile al centro dello stomaco; una vertigine vacua che appariva improvvisa e intermittente in mezzo alle faccende che le occupavano mani e mente, lasciandola così sospesa e col fiato corto dell'attesa.
Aveva trascorso la maggior parte delle giornate in giardino, accudendolo come fosse un bimbo bisognoso di cure e affetto; con le mani alacri nella terra umida, ne aveva ripristinato l'assetto ordinato cui, ella stessa, aveva lavorato, all'indomani del matrimonio, fino al giorno della tempesta, la notte precedente la partenza di Eìos.
Aveva addolcito il camminamento tra il ferruginoso cancello e la porta di ingresso con due ali rigogliose di ortensie dai colori intensi dell'azzurro, del blu e del viola fusi tra loro, quasi il pigmento delle globose infiorescenze si fosse sciolto, come un acquerello sotto le gocce di pioggia. Aveva moltiplicato i piccoli vasi di coccio sui davanzali, lasciando, come solo confine, tra il giardino e le stanze, il vetro sottile delle ampie finestre. Aveva sospeso sui rami più alti casette di legno per i passeri, nelle quali lasciava il becchime per attirarli e distogliere il loro interesse dalle sementi e dai frutti che aveva piantato nel piccolo orto vicino. Il rosso dei pomodorini tondi e maturi, il verde variegato delle piantine timide che crescevano tra i solchi ben delineati nel terreno erano testimoni allegri e promettenti dell'attenzione feconda che ella vi aveva profuso.
Le piaceva sporcarsi le mani di terra, al contrario di tutte le signore della sua estrazione sociale, che mai avrebbero rischiato di rovinarsi la pelle e le unghie; le dava una sensazione di armonia vitale con la natura, la riconciliava con il mondo, infondendole, anche in quel frangente fastidioso dell'assenza del proprio sposo, la calma e la pazienza necessarie ad attendere il suo ritorno.
- Dov'è? - sentì chiedere con voce ruvida di fiamma rabbiosa. - Il tuo padrone, dov'è? - insistette, alzando il tono perentorio.
- Il padrone ... - mormorò Alvita, chiaramente turbata, - Il padrone è fuori città, signore. - spiegò.
Ariela, assorta nei propri pensieri e intenta nella cura del giardino, non si era accorta che la campanella sospesa fuori dal cancello avesse suonato freneticamente, come le campane della chiesa che annunciano alla città un pericolo imminente. Aveva udito soltanto quella voce così contraffatta e affannosa, da non riconoscerne il proprietario.
Ripose le cesoie nel piccolo cesto di vimini, nel quale aveva raccolto rose canine e rami profumati di menta selvatica; si sollevò, sciogliendo il fiocco del grembiale bianco, indossato sull'abito; pulì le mani e si avviò verso il cancello.
Miran era lì, le mani aggrappate all'inferriata, come un prigioniero che pretende la liberazione, gli occhi chiari infangati da una rabbia tumultuosa e la bocca tirata, a scoprire i denti bianchi come quelli di una fiera.
Non l'aveva mai veduto così, preda dell'ira: di lui, fin dal giorno in cui aveva fatto visita a sua madre per chiedere la mano di Nubia, aveva ammirato la gentilezza e la mitezza del vero gentiluomo; il sorriso affabile, aperto dell'uomo sincero; la pacata inflessione della voce e il riverbero della sua anima attraverso gli occhi chiari. Vederlo alterato, il viso inficiato di rabbia violenta, le nocche delle dita deformate dalla stretta sulle sbarre del cancello, le minò il respiro; la intimorì e, al contempo, le provocò un senso di pietà e di dolore per quella metamorfosi.
- Bugiarda! - insistette, convinto che la risposta della cameriera fosse solo un temporeggiamento.
Ariela dominò la paura che sentiva rimbalzarle nel petto, regolarizzò il respiro acceso e si avvicinò, le spalle sicure, lo sguardo dritto verso la minaccia e affidandosi alla Vergine Celeste perché la sorreggesse, intervenne.
- Non mente. - disse con una voce che non sembrava uscire dalla propria bocca, tanto era ferma e determinata, - Eìos è in viaggio per faccende di famiglia e non tornerà che tra qualche giorno. - continuò, avvicinandosi alla servetta spaurita, che tormentava le cocche del grembiule.
- Alvita ... - le si rivolse guardandola rassicurante, - ... apri il cancello al signore. -
Ella, con gli occhi stralunati, obbedì, ma, solo quando Miran superò la soglia e le fu di fronte a pochi passi, Ariela scorse il calcio d'avorio della pistola, spuntare dalla cintola dei calzoni, e tremò.
Raccolse il poco sangue freddo che sapeva di possedere, le mani strette a sollevare le vesti, perché non intralciassero il suo già precario incedere, e si avvicinò al cognato.
- Perché chiedi di mio marito con tanta malagrazia, Miran? - lo interrogò.
- Non è affare che ti riguarda ... - rispose con la voce ancora corrotta.
- Sei in errore. - lo corresse, - Ciò che riguarda Eìos, riguarda me! Dunque, perché chiedi di mio marito? - ripeté con la sua usuale grazia, ma con tono perentorio e insistente.
- Per ucciderlo! - rispose freddo, con la voce compassata, quasi fosse un sicario avvezzo a portare la morte.
- Santa Vergine! - esclamò Alvita, portandosi entrambe le mani a coprire la bocca spalancata.
- Cosa dici? - esalò Ariela, un filo di voce quasi impercettibile, - Perché? - mormorò sbandata, pur conoscendo, in cuor suo, il motivo di tanta rabbia.
- Sapevi che è stato l'amante di Nubia? Sapevi che quel bastardo si è preso la sua carne, prima che ella la concedesse a me, suo sposo? - incalzò, il viso paonazzo e le mani tanto strette a pugno, da sbiancarne le nocche. - E sapevi che, per nascondere il proprio rivoltante misfatto, si è preso finanche il mio nome? - terminò, con il respiro corto ad un palmo da lei.
- Miran ... - sembrò volersi scusare dell'inganno che anch'ella, seppur nolente, aveva perpetrato.
- Dunque, sapevi ... - mormorò, deluso e amareggiato, più a sé stesso che alla sua interlocutrice. - Anche tu, come mia madre, sapevi e hai taciuto! Come lei, mi hai ingannato ... - continuò, di nuovo la voce alterata dalla rabbia che lo bruciava ogni qual volta il tradimento gli ricompariva nella mente.
- Per il tuo bene ... fu solo per il tuo bene. - provò a rabbonirlo.
- Quale bene? Quale bene nasce dalla menzogna, dannazione? Vi siete arrogate il diritto di proteggermi dalla verità, come si fa con un bimbo fragile, e a lui avete permesso di prendere ogni cosa: il ventre della mia donna, la mia dignità, il mio nome, il mio orgoglio e la mia sanità mentale ... - l'accusò, le lacrime ad invadergli gli occhi celesti, le labbra segnate dallo sconforto e una voce tremula proprio come un bambino che ha scoperto l'inganno della vita. - Ma giuro che lo ucciderò, con le mani nude, con una pallottola nel cranio o con una lama affilata nel cuore. Lo ucciderò, giacché, se l'inferno in terra è ciò a cui sono destinato, giuro che conquisterò lo stesso diritto anche per la mia anima, dopo la morte. -
- E' tuo fratello, Miran ... - ribatté, come se quel sangue che scorreva nelle vene di entrambi fosse sufficiente a distoglierlo dal suo intento omicida.
Miran rise beffardo: - Il sangue non basta! - citò le parole dello stesso Eìos che lo avevano deluso, quel giorno nel proprio studio, e che mai come in quel frangente gli sembrarono premonitrici.
- Egli non ha colpa alcuna per quanto è accaduto: quando conobbe Nubia, ella non era ancora tua promessa - cercò di giustificarlo. - Partì per un viaggio con l'intenzione di sposarla una volta tornato, ma la trovò già tua. -
- Meschino! - commentò sarcastico, - Dunque, molestato per l'ennesima volta dalla sorte, ingoiò tutti gli amorevoli propositi, la lealtà fraterna, l'onesta che lo aveva sempre distinto e si rivalse ricattando mia madre perché lo riconoscesse come figlio di Esem e costrinse te a sposarlo, in cambio del proprio silenzio? - insistette.
- No ... Per l'amor di Dio, cerca di comprendere, Miran: egli era furioso per essere stato ancora una volta beffato dal destino; era deluso dall'inganno di Nubia, che aveva barattato il suo amore per un futuro più solido e conveniente, sposando proprio quel fratello il cui rispetto aveva inseguito per una vita; e fu la rabbia a guidarlo nel ricatto scellerato a tua madre. - spiegò, puntuale. - E, per ciò che riguarda me, non fu una costrizione il mio matrimonio con lui, fu una mia libera scelta! - gli assicurò, con voce calma e senza incertezze.
- Una tua scelta? Legare la tua vita a quella di un bastardo traditore, figlio di una cagna? - chiese retorico, con un risolino denigratore.
- Non mancargli di rispetto. - lo ammonì severa.
Miran rise sguaiatamente, come si ride delle parole di uno sciocco, poi guardandola dritta negli occhi, le ricordò: - Il rispetto si guadagna ... -
Le voltò le spalle, senza aspettare la sua risposta, aprì il cancello, che cigolò sinistro, quale presagio di sventura e morte, e quando ne ebbe superato la soglia, ancora di schiena, terminò: - Digli che tornerò e che non si nasconda né dietro le tue gonne, né in un qualunque anfratto del mondo, giacché non avrò pace fino al giorno in cui gli toglierò la vita! -

In nome del sangue, in nome dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora