. 26 . Il prezzo della libertà
Uno stridore di ferri lo distolse dal pantano tra veglia e sonno in cui era caduto.
- Capitano ... capitano ... - un sussurro sottile e sommesso, come se venisse da un sogno, lo chiamò insistentemente, finché Eìos non aprì gli occhi e li indirizzò verso il luogo da cui proveniva.
Alla grata della piccola feritoia aperta nella possente muratura, erano incastrate le punte adunche di un uncino; Eìos stropicciò gli occhi, ancora appiccicosi di sonno, e intravide attraverso la scacchiera formata dai ferri, il viso lentigginoso del ragazzino che aveva portato con sé per mare innumerevoli volte e a cui aveva affidato i lavori di manutenzione della sua nuova barca.
- Ratho! Come diavolo hai fatto a salire fin quassù? - chiese, la voce arrochita dall'improvviso risveglio.
- Lo sapete, capitano, che posso arrampicarmi da per tutto! - gli rispose, pavoneggiandosi e allargando la bocca in un sorriso soddisfatto.
Ripensando a tutte le traversate insieme, non gli fu difficile immaginarlo scalare il torrione in cui era situata la cella, nonostante fosse a una ventina di metri dalla superficie del mare. Con la stessa abilità con la quale si arrampicava sull'albero maestro, fino alla coffa, quel ragazzino, magro come uno stecco, doveva aver risalito le pietre lisce della costruzione, i piedi scalzi ad intercettare ogni piccola asperità e le mani strette saldamente alla fune legata al rampino.
- Queste sono le chiavi delle celle ... - gli spiegò, lanciando un mazzo tintinnante sul pavimento, - ... sono in tutto venticinque, occupate da ventuno detenuti. Non ci sono guardie nel corridoio a sorvegliarle, ma due sono appostate alla fine della scala a chiocciola che conduce al cortile centrale; altre due sono di piantone al portone d'ingresso e otto sentinelle perlustrano la fortezza dai terrazzi dei bastioni. - continuò puntuale, avvinghiato alla grata, con le mani tanto strette, da intravederne le giunture delle nocche, come le ossa di uno scheletro. - Capitano ... - riprese, dopo aver domato l'affanno di quella posizione tanto innaturale, - Queste sono per voi e il vostro amico ... - disse, mollando la presa di una mano e lanciando all'interno della cella, un sacchetto di tela scura, che rovinò al suolo con un tonfo metallico, attutito dalla stoffa. - Fate in fretta, vi aspetto dabbasso! - ammiccò, con un altro sorriso complice sulla faccia smunta.
Il tempo di un respiro ed il ragazzino era già sparito, lasciando intravedere il cielo scuro della notte.
Eìos raccolse il sacchetto e lo vuotò: due pistole cariche, caddero sul tavolaccio; le infilò entrambe nella cintola dei calzoni, per avere le mani libere, raccogliere il mazzo di chiavi e aprire la cella. Si avvicinò alla serratura, infilò la mano attraverso la grata, il più vicino possibile alla toppa, e inserì una chiave.
Il primo, il secondo e il terzo tentativo fallirono, fino a che Eìos non scelse quella giusta: lo scatto delle mandate rintoccò, come le lancette di un orologio, e alla quarta, la serratura si aprì.
Spinse l'inferriata e uscì; compiendo pochi passi, si trovò davanti a quella di Betel e ricominciò la ricerca della chiave giusta.
- Tirati su! - mormorò, mentre ne inseriva una nella serratura, - Non è questo il momento di dormire ... - insistette rivolto l'amico, che giaceva supino sul proprio giaciglio, le gambe distese e accavallate e le braccia incrociate dietro la nuca.
Betel sorrise, senza aprire gli occhi, e, quando anche la propria cella fu aperta, si sollevò e raggiunse Eìos. Questi gli porse una delle pistole; Betel aprì il tamburo; con un colpo secco lo fece ruotare su sé stesso e poi lo richiuse con il colpo in canna e il cane alzato, pronto a fare fuoco.
- Facciamo uscire tutti. - suggerì, - La confusione che provocheranno tra le sentinelle costituirà un buon diversivo per agevolarci la fuga. -
Le celle furono aperte ad una, ad una e i detenuti infilarono il corridoio e poi la stretta scala a chiocciola, in un mormorio sommesso ed eccitato, senza neanche sapere a cosa andassero incontro, accecati dal miraggio della libertà.
- Tu stammi dietro. - ordinò a Eìos, mentre seguiva la scia degli altri verso il cortile centrale.
Questo era avvolto dalla calma notturna; il silenzio era rotto solo dal crepitio delle fiaccole alloggiate alle pareti e dai passi cadenzati delle sentinelle che percorrevano i terrazzi per presidiare la fortezza. Quando i primi prigionieri uscirono allo scoperto, le guardie nel cortile, diedero l'allarme, puntando le armi sul gruppo sparuto e rumoroso e intimando la resa. Ma l'orda di uomini affamati di libertà, senza scrupoli e senza nulla da perdere, si scagliò contro il presidio, inferocita.
L'aria si riempì di grida e schioppi di fucile, in un tumulto incontrollabile; una mischia di corpi confusi si concentrò nel cortile, mentre le sentinelle accorrevano per dare man forte alle altre guardie, sopraffatte dal numero e dalla ferocia dei detenuti. Betel fece capolino dal corridoio, che dalla fine della scala conduceva all'esterno, proprio mentre lo scontro divampava.
- Seguimi. - ripeté e indicò, con un cenno del capo, un foro, del raggio di poco più di un metro, situato nel lato opposto dello spiazzo. Velocissimi zig-zagarono tra barili e casse ammassate, nascondendosi alla vista dei soldati.
L'ultimo tratto da percorrere per raggiungerlo, però, era allo scoperto; una delle guardie ne scorse i movimenti e, intimando loro l'alt, puntò la propria arma sui loro corpi esposti. I due, ignorarono l'ordine, costringendola a fare fuoco diverse volte, e si infilarono in scivolata nell'apertura, uno dopo l'altro, come un filo di cotone nella cruna di un ago.
Era uno degli scoli che venivano praticati nelle spesse mura delle vecchie fortezze, per espellere le acque reflue e quelle piovane miste a fango. Un cunicolo stretto, dalle pareti viscide e muschiate, attraversava le viscere di pietra, come un budello maleodorante, per aprirsi tra i frangiflutti che circondavano la base rocciosa su cui si fondava la fortezza.
Vi scivolarono attraverso, con i piedi in giù, agevolati da un rigagnolo acquitrinoso, che scorreva putrido e scrosciante verso lo sbocco.
L'apertura era poco più larga dell'imbocco, ma comunque appena sufficiente per il passaggio dei loro corpi, e si apriva tra gli scogli, in parte già sommersi dal mare. Giunti all'esterno, l'aria pulita e salmastra allietò le narici e il colore bluastro del cielo notturno li rinvigorì, con la sua vastità e la luna enorme e lucentissima.
La marea cominciava a salire, presto la superficie delle acque avrebbe raggiunto un livello troppo alto per consentire loro un percorso agevole.
- Costeggeremo la fortezza passando sulle rocce ... - gli spiegò, mentre si arrampicava sui massi spigolosi e resi scivolosi dalle alghe, - ... fino alla spiaggia. - continuò, sforzandosi di rimanervi aggrappato con le mani e con le braccia, nonostante la furia crescente delle onde. - E' lì che ci aspetta Ratho con i cavalli. - terminò col fiato corto.
Anche Eìos ansimava, ma non era la prova faticosa della fuga a minargli il respiro: un dolore lanciante gli infiammava l'addome e la coscia sinistra pulsava allo stesso ritmo forsennato del cuore. Abbassò gli occhi e scorse una macchia scura che occupava gran parte della camicia, già sporca e lacera, proprio nel punto che doleva. Controllò, insinuando la punta delle dita nello strappo; i polpastrelli si imbatterono in un taglio lungo, ma non troppo profondo, dal centro del ventre al fianco, imbrattandosi di sangue vischioso e caldo. Un lamento gli si arrampicò su per la gola, ma ebbe la forza di reprimerlo, perché l'amico non se ne avvedesse e fosse costretto a rallentare la fuga per aiutarlo.
Continuò a seguirlo, assecondandone il ritmo, avvinghiandosi agli scogli, ma le fitte sempre più lancinanti gli fecero strizzare gli occhi e digrignare i denti. Anche la coscia sinistra era ferita e a, giudicare dal dolore, che, come un punteruolo conficcato nella carne si ramificava in tutto il corpo, doveva essere molto più grave di quella sull'addome.
- Cosa hai? - gli chiese Betel, accorgendosi che rimaneva indietro.
- Nulla! - mentì, - Rimuginavo ... Solo tu potevi escogitare un piano così complicato! - abbozzò un sorriso, perché Betel proseguisse senza preoccupazioni.
- Oh, andiamo, sembri una donnetta petulante! - si burlò di lui, - Non continuare a lagnarti: in fondo ti sto rendendo la libertà! - aggiunse, proseguendo con una forza e una determinazione che Eìos cercò di emulare.
Strinse i denti e riprese a muoversi alla stregua dell'amico, rivoli di sangue e dolore, colorarono l'acqua spumosa che si infrangeva sulle rocce, fiaccando la sua resistenza già minata dai giorni di prigionia.
Raggiunsero la spiaggia, quando già l'acqua stava superando il livello massimo, appena in tempo per vedere le rocce annegare sotto la superficie increspata.
Eìos crollò sulle ginocchia, al limite delle forze; puntellò il peso del busto sulle braccia tese; abbandonò il capo verso il basso e le gocce di mare grondarono dalle punte dei capelli, disegnando arzigogoli sulla rena.
- Ratho ci aspetta lì, nella boscaglia. - indicò il punto in cui la sabbia si insinuava tra le radici degli alberi.
Eìos si sollevò, facendo appello a tutte le forze che gli rimanevano in corpo, e proseguì verso il punto convenuto.
Betel prese a seguirlo, camminando all'indietro, affondando i piedi nelle orme lasciate da Eìos, per poi premurarsi di cancellarle, smuovendo la sabbia con un ramoscello raccolto sulla battigia.
Tra gli alberi e il buio fitto della notte inoltrata, il ragazzino, reggeva le redini dei loro cavalli, nervoso e impaziente, dondolandosi sul posto e calpestando le foglie cadute al suolo per ingannare l'attesa.
- Finalmente! - li salutò, rasserenato dal loro arrivo.
Montarono in sella: Eìos, stringendo i denti per lo sforzo che costava al proprio corpo ferito, e Betel, afferrando Ratho per un braccio e caricandolo in groppa al proprio animale. Questi si avvinghiò alla sua schiena e l'arabo, con un colpo ai fianchi del suo purosangue, partì al galoppo.Cavalcarono l'uno dietro l'altro, per un paio di miglia, inoltrandosi nel bosco che via, via si infittiva e si richiudeva alle loro spalle come un sipario naturale di rami e foglie, felci e muschi profumati.
Il dolore diveniva sempre più insopportabile anche a causa dei continui sobbalzi che il galoppo e il terreno sconnesso procuravano; la temperatura del corpo scendeva piano, per il freddo degli abiti bagnati e per le copiose emorragie; il vento della notte lo faceva rabbrividire come se avesse la febbre, eppure la fronte era imperlata di un sudore freddo, che gli rigava le tempie e le guance. Cercò di concentrare i propri pensieri sulla corsa, sul panorama che gli scorreva intorno, sul profumo di libertà che sembrava, ad ogni schiocco degli zoccoli, più vicino e possibile, ma il dolore gli ricordava continuamente i suoi errori, le sue sfide alla sorte, il suo ricatto e tutti gli altri motivi che lo avevano condannato a quella condizione infernale. Così in mezzo a quelle considerazioni vergognose, riapparvero distinte le parole che Miran gli aveva rivolto quella mattina, la sofferenza che traspariva da esse e gli occhi spenti di un uomo agonizzante e deluso.