. 12 . Terra e acqua, muschio e saleCome gli aveva detto suo padre, bastarono un paio di firme davanti all'ufficiale del registro civile, per avere il nome che tanto aveva cercato. La signora Leria era entrata nell'ufficio, sotto braccio del figlio, un enorme cappello nero, con una veletta di pizzo, le adornava il viso facendo risaltare il pallore del volto e gli occhi chiari, quasi vitrei. Un altrettanto grande ventaglio piumato le copriva la bocca, quasi si vergognasse dell'atto che si accingeva a compiere.
Quando i suoi occhi incrociarono quelli determinati e spavaldi di Eìos, un lampo di disprezzo e odio li investirono, crudeli, ed il giovane vi lesse una sete di spropositata di vendetta nei suoi confronti. Ma non li temette, la ripagò con lo stesso sguardo truce e, al contempo, con quello di un uomo, che seppure nel più illecito dei modi, stava prendendosi ciò che gli apparteneva.
Altri occhi erano quelli di Miran: delusi per la distanza che lo separava da colui che aveva amato come un amico; desiderosi di trovare una strada per tornargli vicino, per conoscerlo ancora, di nuovo, per ciò che era davvero, suo fratello.
L'ufficiale pose loro le domande di rito, redasse il verbale ed infine, rivolgendosi a Miran ed a sua madre, li invitò a firmarlo. Leria intinse la penna nell'inchiostro del calamaio con lentezza esasperante, quasi aspettasse che una folgore divina glielo impedisse e, quando fu il turno del figlio, fermò i suoi occhi furenti sulle lettere che ad una ad una Miran scriveva.
Fu la volta di Eìos sancire quel riconoscimento, la penna scorse fluida, senza intoppi e, quando il suo nome fu scritto per intero, inspirò sollevato, l'atleta vittorioso alla fine della corsa.
- Sono felice per te ... - si congratulò, posandogli la mano sulla spalla, Elmisk, che lo aveva accompagnato per tutto il tempo come un padre premuroso.
- Lo sono anch'io. - gli si avvicinò Miran.
Eìos rimase spiazzato da quelle parole, ma non completamente sorpreso: nei mesi che avevano vissuto insieme, egli era sempre stato un sincero amico, cordiale e attento, nonostante Eìos facesse di tutto per risultare scostante e in collera, e maledì l'istante in cui, per quel nome, aveva rinnegato il proprio sangue.
Piegò il capo in un ringraziamento muto, poiché non poteva concedere spazio alcuno al desiderio di cedere a suo fratello, rivolgendogli solo gli occhi che rimanevano fedeli alla propria anima dilaniata.
- Sposerai Ariela, dunque? Spero abbiate un matrimonio fortunato! - gli augurò sincero.
- Ti ringrazio. Avrei piacere che tu vi presenziassi e non solo come marito di sua sorella ... - lo invitò.
- Ne sarò lieto, Eìos! - rispose, comprendendo la difficoltà di lui a liberare le parole.
- Devo andare, adesso. - disse con calma, offrendogli la mano.
Si congedò con un cenno del capo, gli occhi verso la sua aguzzina e la bocca tirata in uno strano sorriso indecifrabile.
- Eìos ... - lo chiamò Elmisk, quando furono fuori dagli uffici del registro civile.
- Padre, vi prego, non chiedete ... - lo supplicò, faticando a mettere ordine nei propri pensieri convulsi ed ancor più nei sentimenti. - Vi chiedo solo di occuparvi di tutti i documenti necessari allo sposalizio, io ho bisogno adesso di qualche ora solo per me, per fermarmi, per fare il vezzo a tutti questi cambiamenti radicali. - terminò, allontanandosi. - Torno a casa mia, padre, vi cercherò io, domani. - precisò, affinché non si preoccupasse della sua assenza. Montò a cavallo, rigido e con un malumore diffuso a causa di quella donna, della disponibilità disarmante di Miran, e del proprio slancio verso di lui, debolezza che non avrebbe dovuto permettersi.*********
Nonostante la stanchezza della giornata, aveva preferito passeggiare per i viottoli di campagna, alle spalle della sua casa, piuttosto che rientrare subito. All'imbrunire, aveva osservato il verde dei campi, le macchie riarse di terra bruciata dal sole e di quella dissodata e pronta alle nuove sementi. Aveva percorso il sentiero che si intrufolava tra i frutteti; colto qualche frutto maturo, dai rami più bassi, così come faceva da ragazzino quando aveva fame; aveva discorso con un bracciante, al termine della giornata di fatica, dell'uva che coltivava e del vino che ne sarebbe venuto.
Rientrato in casa, aveva preso un bagno rigenerante, che insieme alle scorie della giornata, si era portato via la tensione e l'aridità di quel soggiorno soffocante, trascorso alla tenuta: il patto scellerato con Leria; la distanza necessaria tra lui e Miran e Nubia con il suo sudicio tentativo di riportarlo tra le sue cosce.
L'unica immagine che gli era rimasta attaccata alla mente, era il viso di Ariela, il profumo inebriante delle rose di maggio, il colore delle ciliegie sulle labbra ed il sapore della bocca invitante.
Era così strano per lui pensare a quel modo ad una donna, un misto inconsueto di tenerezza e voluttà, che non riusciva a capacitarsene.
Erano passati soltanto un paio di giorni da quando l'aveva baciata e nonostante quelle ultime ore fossero state frenetiche per l'imminente incontro con Miran e sua madre per il riconoscimento, aveva pensato più alle sue labbra che a tutto il resto.
Non appena aveva saputo del suo arrivo in città, le aveva fatto recapitare un biglietto, nel quale la invitava, l'indomani, a fargli visita nella sua casa, così che potesse vedere la dimora in cui avrebbero vissuto da sposati.
Quando la sera si era insediata, rubando le ultime fievoli luci del giorno, aveva scelto la spiaggia. Si era messo comodo sulla sabbia che, fredda in superficie, sotto serbava ancora il calore solare, i gomiti sulle ginocchia, i piedi nudi lambiti dalla spuma sfrigolante delle piccole onde, lasciando vagare lo sguardo lungo la linea confusa di confine tra cielo e mare; perdendosi nelle piccole luci lontane delle lampare, come lucciole in un campo di notte.
E così era rimasto per ore, nell'attesa che il sonno giungesse ad occupare quella notte carica di pensieri e rigurgiti.