. 25 . Ad un passo dalla libertà
Uscì dalla sua camera all'ora di pranzo, uno spettro dal sepolcro, pallido e smagrito, sbattuto come un cencio sulle pietre lisce del fiume. Si era lavato, cambiato le brache e la camicia; il candore della stoffa bianca e la stiratura perfetta, gli donavano un aspetto ordinato e pulito, anche se le occhiaie violacee svelavano stanchezza e trambusto interiore.
Suonò il campanello per richiamare la servitù e ordinare qualcosa per riempire lo stomaco: non ricordava l'ultima volta che aveva consumato un pasto. Non aveva appetito, ma riconosceva al proprio corpo la necessità di sostenersi dopo i litri di alcool che aveva ingurgitato e le secrezioni di bile che lo avevano portato a vomitare succhi gastrici e anima insieme.
Aveva sperato che il cervello si spegnesse e ignorasse la scoperta infamante che aveva fatto, come sperano tutti quelli che bevono e invece si ritrovano solo ubriachi e dipendenti da un rimedio ingannevole.
Quando aveva compreso che quell'oblio salvifico non sarebbe mai arrivato, aveva dirottato rabbia e frustrazione verso una vendetta lucida e allettante, rimedio certamente meno deleterio per il corpo, ma altrettanto distruttivo per l'anima.
Sedette su uno dei divani del grande salone vuoto, spazio inutile occupato solo da cose; alla cameriera che arrivò e si stupì di trovarselo davanti spiritato e vacuo, ordinò che gli fosse servito il pranzo nello studio e che la sua camera fosse riordinata e pulita da cima a fondo, come si fa quando si riaprono le stanze di una casa chiusa da tempo.
Mentre vi si dirigeva, si ritrovò davanti Saurion, la sua faccia fastidiosa, per la perenne espressione rubiconda di chi non ha pene sul cuore. Miran, facile all'ira come era diventato per gli ultimi avvenimenti, lo fermò bruscamente e gli chiese: - Perché sei qui? -
- La vostra signora madre, padrone, mi ha fatto chiamare: aveva bisogno dei miei servigi. - rispose ossequioso, la faccia bassa di chi sa di aver disobbedito.
- Quando sono partito, ti ho ordinato di badare alla tenuta, alle messi, ai braccianti ... - scandì ogni parola, battendo il pugno chiuso nel palmo aperto della mano, - ... Perché non hai obbedito? - aggiunse, indurendo la mascella.
- Ma signore, vostra madre ... - provò a giustificarsi.
- Io sono il tuo padrone, io do gli ordini, tienilo bene a mente, o finirai per strada! - l'avvertì, non essendo più disposto a tollerare insubordinazione e mancanza di rispetto, - Cosa voleva mia madre? -
- Non so ... non l'ho ancora veduta! - mentì.
- Devi fare una cosa per me. - gli disse, riprendendo il tragitto per lo studio.
- Ordinate pure ... - rispose il servo, seguendolo.
- Voglio che sorvegli la casa di quel bastardo che si è preso il nome di mio padre e che venga a riferirmi immediatamente del suo rientro in città. -
- E' già rientrato, signore, due notti orsono. - riferì.
- E tu, come lo sai? - replicò, arrestando il passo e voltandosi di scatto per guardarlo negli occhi.
- In città ... non si parla d'altro ... - rispose, cercando di non destare sospetti che facessero subodorare l'intrigo di cui era protagonista, - Pare che i soldati del comandante Kuvee abbiano rinvenuto nella stiva della sua nave, decine di casse di liquore introdotte illegalmente. - raccontò, quasi fosse un pettegolezzo da comari. - Ora è rinchiuso nella fortezza con l'accusa di contrabbando. - concluse, la voce piatta senza coinvolgimento.
Miran sorrise, rabboccò il bicchiere e trangugiò l'intero contenuto in un lungo sorso, sentendo lo stomaco, già sofferente per il digiuno degli ultimi giorni, infiammarsi di acida bile. Ma non vi badò: inspirò ed espirò, come se l'aria potesse spegnere l'incendio delle budella.
La cattura di quel verme non era altro che un contrattempo, fastidioso, certo, ma comunque risolvibile. Avrebbe dovuto avere soltanto un altro po' di pazienza: avrebbe aspettato acquattato nell'ombra, come un predatore, infine gli avrebbe schiacciato la testa, come si fa con una serpe velenosa.
- Ordina allo stalliere di preparare la carrozza; avverti le cameriere di riempire valigie e bauli con le cose di mia moglie, e quando tutto sarà pronto, riportala alla tenuta. -
- E ... vostra madre? - si preoccupò.
- Ti occuperai di lei dopo che avrai eseguito i miei ordini. -
- Come volete! - si congedò rispettoso.
Fuori dallo studio, la cameriera aspettò che Saurion uscisse, poi con un vassoio riccamente imbandito, entrò e si avvicinò alla scrivania, lo poggiò sul ripiano e dopo un inchino si informò se il suo padrone avesse bisogno d'altro. Miran la congedò con un gesto della mano, nauseato dall'odore di cibo che affliggeva le sue narici. Inforcò le posate, storcendo le labbra e imponendosi di mangiare, ma al primo boccone lo stomaco si rivoltò in un rigurgito acido. Inspirò, per domare il fastidio, e riprese a masticare, quando Nubia entrò furiosa nello studio.
- Se credi di poter decidere della mia vita, soltanto perché hai scoperto che mi sono data ad un uomo prima di sposarti ... sei un povero illuso. -
La sua voce era stridula e sgraziata, quella di una vecchia, così il colorito, spento e ceruleo, come se il tempo si fosse abbattuto su di lei in colpo solo col peso di anni.
Per Miran oramai la sua bellezza era un incantesimo spezzato, sconfitto dall'umiliazione che gli aveva inflitto, dalle menzogne e dalla sfacciata spudoratezza con la quale ancora ostentava gli errori e le offese.
- L'illusa sei tu, se credi di avere ancora il diritto di opporti alle mie decisioni! - replicò, senza degnarla di uno sguardo. - Tu sei niente! Vali quanto una sgualdrina in un bordello. Non ti ripudio, perché, se così facessi, ti darei la libertà di fare ciò che più ti aggrada: ti lascerò alla tenuta, invece, confinata nella tua stanza, finché non avrò avuto soddisfazione per quello che tu e quel verme mi avete fatto. Soltanto quando gli avrò piantato una pallottola nel cranio, te ne andrai, ma dopo che ti avrò marchiata come una donna indegna e senza morale. -
- Fuggirò ... -
- Ed io ti riprenderò, come si riacciuffano le giovenche quando si allontanano dalla mandria ... -
- Non ne sei capace ... - lo sfidò, il mento alto, gli occhi infiammati dalla propria indole ribelle.
- Non mettermi alla prova, Nubia: l'uomo che ti ha sposata è morto e l'hai ucciso tu con il tuo miserabile inganno. Quando ti ho sposata ti ho dato un nome: ti ho chiamata sposa e come sposa ti ho amata e rispettata. Non perché vedessi di te solo l'abito bianco che vestiva un corpo immacolato, ma perché ti credevo sincera e onesta e mi illudevo che anche la tua anima fosse candida. Non ti avrei amata meno, se mi avessi rivelato il tuo increscioso segreto, né ti avrei giudicata per quell'inciampo, se fossi stata tanto onesta da rivelarmelo. Ma tu hai preferito tramare e mentire e aprire a me il tuo ventre, lasciando la mente nell'orbita di quell'altro. Per questo non hai diritto al perdono e neanche all'espiazione.
E ora levati di torno: sto cercando di pranzare e la tua vista mi dà la nausea. - la liquidò, con i denti stretti e il boccone successivo, già infilzato nei rebbi della forchetta.
Nubia tremò; tremarono le mani, indaffarate a tormentare le gonne; le labbra che avrebbero voluto ribattere, restituendo l'offesa, e tremò pure il cuore, che per la prima volta, si sentì senza via di scampo, sconfitto, abbattuto da un nemico più forte e spietato. Si maledì per la leggerezza con cui aveva accettato di consacrare il proprio corpo ad un uomo, quando mente e cuore sarebbero appartenuti per sempre ad un altro.
Ma non si pentì, neanche in quell'istante, neanche nel momento della disfatta, di aver amato Eìos.
Voltò le spalle e uscì da quella stanza, nel petto un solo desiderio, nella mente una sola speranza: tornare ad essere libera.