. 30 . L’esca
Le luci nelle grandi stanze erano già accese.
Il tramonto era giunto con la sua luce infuocata, mantenendo ancora il giorno aggrappato alle pendici dei monti aguzzi, una colata di lava a sbavarne i contorni frastagliati dalle punte degli alberi.
Da quando aveva saputo dell’evasione di Eìos, lo stomaco aveva cominciato a contorcersi di nuovo, i succhi gastrici gli avevano inacidito le budella, privandolo del poco appetito che gli era rimasto.
Quel diavolo riusciva a trovare sempre una scappatoia per evadere alle responsabilità, come una serpe viscida che si divincola e striscia veloce negli anfratti delle rocce, scampando alla cattura.
Avrebbe dovuto essere egli stesso a tirarlo fuori da quella galera, per poi togliersi la soddisfazione di sputargli in faccia tutto il veleno che gli ammorbava il sangue e ucciderlo o anche farsi uccidere.
Tanto per Miran era lo stesso: la morte era già venuta a prendergli l’anima, lasciando il corpo a marcire, come un involucro vuoto e senza vita.
Invece, Eìos era riuscito a prendersi la libertà da solo; si era nascosto chissà dove, togliendogli anche l’unica cosa che gli aveva permesso di respirare fino ad allora: la speranza di potersi vendicare.
Fece chiamare Saurion, che dal giorno in cui era arrivato, non aveva fatto più ritorno alla tenuta, salvo che per riaccompagnarvi Nubia, affinché lo informasse sugli sviluppi delle ricerche dei detenuti.
- Buonasera, signore. - lo salutò con la sua solita, insopportabile deferenza. - Volevo ... ecco volevo farvi notare che siamo agli ultimi giorni del mese. E' necessario che prepariate il danaro per le paghe dei braccianti e dei servitori della tenuta, che saldiate i conti per le sementi e i nuovi armenti acquistati e che ... -
- Non sei il mio amministratore, Saurion! - lo interruppe, così bruscamente che le parole che il servo stava per pronunciare gli si incastrarono nella gola, insieme alla saliva. - Non è tuo il compito di ricordarmi i miei doveri di padrone, né ti ho fatto chiamare perché parlassi senza che fossi io a chiedere. -
- Perdonate ... - biascicò, dopo aver deglutito a fatica.
- Dimmi ciò che sai dei fuggiaschi. - lo interrogò.
- Non si sa granché, in verità, signore: in città si dice che sia arrivato un altro drappello di soldati e che le ricerche siano state estese alle campagne circostanti e al bosco, anche se l’area da battere è piuttosto ampia per il numero di uomini a disposizione del comandante Kuvee. – riferì, per poi aggiungere: - Soltanto due di loro sono stati catturati, la notte stessa dell’evasione, signore. Di … quell’uomo non si sa alcunché. – terminò in imbarazzo per non sapere quale appellativo destinare a Eìos.
- Il diavolo conosce mille trucchi per rendersi invisibile. – rifletté a voce alta, lasciando il suo interlocutore con la fronte corrucciata e un espressione ancora più confusa sulla faccia.
- Che sai del suo compare? - insistette.
- Quell'arabo dal nome strano, dite? Pare che fosse in prigione anche lui e che si sia dato alla macchia, ma neanche di lui c’è traccia. - si affrettò a spiegare, dopo una breve pausa.
Miran si passò la mano sulla faccia, prima sugli occhi segnati da profonde occhiaie, poi sulla labbra aride e screpolate, come per riflettere sul da farsi. Inspirò, cosciente del fatto che l’unica cosa che gli fosse concessa per il momento, fosse aspettare con pazienza.
- Non può aver fatto tutto dalla propria cella. – rifletté, quasi tra sé e sé, - Qualcuno da fuori deve averlo aiutato. - aggiunse, con gli occhi puntati fuori dalla finestra, mentre le luci della sera rubavano la scena al tramonto.
Doveva essere ancora lì, nei dintorni della città, in qualche anfratto puzzolente, ne era certo. Forse poteva essere persino all’interno delle mura stesse, nascosto nella casa di qualche miserabile come lui, aspettando che l'attenzione di tutti evaporasse o che i soldati sconfitti smettessero di cercarlo.
- Cosa volete che faccia, signore? – chiese, rigirandosi il frustino tra le mani callose e ruvide.
- Gira per i mercati; va' al porto, nelle bettole o nei postriboli e tieni le orecchie ben aperte: se saprai ascoltare, prima o poi scoverai un indizio. E adesso, vattene. - gli ordinò.
Saurion chinò il capo, anche se il suo padrone non badò al gesto, impegnato com’era nelle proprie elucubrazioni; voltò la schiena e uscì dallo studio, in silenzio, come se anche lo scricchiolio delle suole sul pavimento potesse disturbare il lavorio intenso del cervello di Miran.
- Maledetto bastardo! – imprecò quando fu solo; le dita contratte spezzarono in due la penna con cui aveva giocherellato nervosamente per l’intera conversazione. L’inchiostro nero e fluido si riversò su uno dei fogli del registro contabile che aveva davanti, sulla scrivania; impregnò la carta porosa, allargandosi in una macchia sempre più grande e dai contorni sfrangiati. La osservò con attenzione, come le fattucchiere che esaminano i fondi del caffè, quasi la densità del fluido, la forma o il colore potessero suggerirgli il modo per stanarlo. Rovistò nei ricordi lucidi degli ultimi mesi e in quelli più annebbiati della fanciullezza, cercando nei respiri, nel cinismo e nel distacco, nelle parole arroganti o nei silenzi pungenti ciò che Eìos teneva più a cuore, per costruire l'esca a cui farlo abboccare.
Fissò gli occhi chiari, testimoni sbiaditi di un’anima oramai logora e perduta, ancora su quella pagina imbrattata: la macchia di inchiostro si era espansa fino all’angolo destro del foglio. Il contorno lambiva alcune lettere del proprio nome e ne copriva altre. Un pensiero illuminato baluginò nella sua mente, come uno squarcio infinitesimo di luce cristallina nel buio di una stanza.
- Il nome! - gridò come lo scienziato che è riuscito a spiegare l'impossibile.
Il nome di suo padre era ciò per cui Eìos aveva sempre lottato.
Contro le leggi degli uomini e quelle di Dio, senza onore, né rispetto alcuno per il prossimo, aveva rubato e mentito, raggirato e tradito per quel nome che sì, gli spettava di diritto, ma egli invece si era preso con il ricatto e i raggiri.
Il nome era tutto ciò che Eìos possedeva e per quel nome, aveva avuto diritto al rispetto dei suoi pari, ad una posizione e a una sposa. Se fosse riuscito a toglierglielo, tutto il resto sarebbe crollato, come la casa costruita sulla sabbia.
Nessuna donna, nessun onore, niente rispetto, niente futuro dignitoso.
Solo la rabbia divoratrice; soltanto il desiderio insopprimibile di vendetta.
Quello poteva essere ciò che lo avrebbe portato allo scoperto: l’esca perfetta che, nel dondolio nell’acqua, con sfarfallii e lampi di luce attira il pesce; la consapevolezza di perdere il nome era l’unica cosa che avrebbe potuto portarlo di nuovo di fronte a lui per la resa dei conti.Sorrise, intingendo l’indice in quell’oracolo nero e rivelatore, con un ghigno sadico pieno di aspettative e impazienza: gli avrebbe tolto il nome e poi la vita!