. 40 . Odi et amo

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. 40 . Odi et amo

Non aveva mai dormito male come quella notte.
Si era agitata sotto le coperte, sopra le lenzuola, aveva lottato con i cuscini di piuma, con la camicia da notte troppo accollata che pareva soffocarla; aveva vegliato e dormito, sognato e rimuginato e si era infervorata a tal punto che, alle prime luci dell'alba, si era arresa ai tormenti e aveva deciso di fare un bagno rigenerante, che mettesse a tacere almeno la stanchezza delle membra.
Senza svegliare Alvita, aveva riscaldato l'acqua e riempito l'accogliente vasca da bagno di ghisa smaltata. Seduta sul bordo, aveva versato nel liquido bollente i sali da bagno, il calore li aveva sciolti, liberando, attraverso i vapori, essenze fresche e pulite, rasserenanti.
Una fragranza immacolata di dalie e lillà si diffuse nella stanza da bagno; le enormi vetrate che la separavano dallo spogliatoio di appannarono, divenendo un sipario opaco, che fece sentire Ariela sola e protetta nei propri pensieri.
Lasciò cadere gli indumenti al suolo e vi si immerse, lentissimamente, così che ogni lembo di pelle potesse beneficiare di quell'abbraccio addolcente.
Quando finalmente fu completamente sdraiata sul fondo della vasca, poggiò la nuca sul bordo fresco e chiuse gli occhi, inspirando.
La pelle cominciò a dissetarsi e le membra a distendersi e, con esse, le spine dei suoi tormenti si fecero meno pungenti, senza però svanire.
Eìos si era comportato da padrone, come gli aveva visto fare innumerevoli volte con chi non ne condivideva le convinzioni o le intenzioni: convinto di essere nel giusto, non concepiva il rifiuto e prendeva ciò che voleva con tutti i mezzi.
Ma come si può imporre la propria volontà a chi si ama?
Amore non è forse prima di tutto libertà e comunione?
Ma Eìos non era avvezzo a perdere, era prepotente e usurpatore e, nonostante le avesse dimostrato infinita dolcezza, pazienza e devozione, rimaneva regista della propria esistenza, intollerante a qualunque intromissione della sorte, degli uomini e forse finanche di Dio.
Dunque, da egoista aveva deciso per sé e per Ariela e poiché il loro matrimonio avrebbe avuto valore fino a decisione contraria della legge, essi sarebbero rimasti marito e moglie.
Ad un tratto, ella non riusciva a vedere altro che i difetti di quell'uomo che l'aveva fatta innamorare, solo l'egoismo ostinato di dominare e di vincere.
Questo la faceva arrossire di rabbia, le bruciava la pelle, come se fosse troppo vicina alla fiamma; le faceva prudere le mani per l'impotenza e le insinuava nel cervello un istinto di ribellione, come l'animale finito nella rete, che nonostante le maglie grandi e forti si dibatte e divincola per fuggire.
L'acqua intanto si era raffreddata, il tepore non era più sufficiente a tenerle caldo in corpo nel gelo di quella mattinata di dicembre, così decise che fosse giunta l'ora di uscire.
Si avvolse nel grande telo di mussola bianca, le ciocche di capelli inumidite per il vapore acqueo aderirono alla pelle del viso, alla linea del collo e alle scapole; sfregò la pelle di tutto il corpo, fino a che non fu completamente asciutta e morbida; si vestì e pettinò i capelli e, anche se ancora un po' titubante e pensierosa, si sentì finalmente pronta alla prova di forza che l'aspettava.
Se Eìos voleva essere padrone, ella non sarebbe stata sua schiava!

**************

L'aveva sentita uscire dalla porta sul retro, non appena i facchini lo avevano preceduto nell'atrio della casa.
Era chiaro che Ariela non aveva accettato la decisione di lui di trasferirsi nella casa sulla spiaggia, e che avrebbe fatto il possibile per farglielo capire, come uscire di casa appena Eìos vi fosse entrato o rifugiarsi in un'altra stanza, non appena egli vi avesse messo piede.
Sarebbe stata una guerra: assalti e fughe; assedi e ritirate, nell'attesa che uno dei due alzasse bandiera bianca.
Ma Eìos conosceva sua moglie; sapeva che di certo si sarebbe battuta con orgoglio e con ardore, fino alla fine, anche senza la speranza di vincere la battaglia. Ma anche Ariela conosceva suo marito e sapeva che egli non era un soldato come gli altri: era il folle suicida che si lancia nella mischia a mani nude e che dalla battaglia o esce morto o vincitore.
Quando Ariela ebbe sentito la voce di Eìos sparire oltre il cancello di ferro del giardino, dopo aver impartito ordini ai suoi uomini e ad Alvita, si diresse nella camera padronale.
La trovò ordinata: non un oggetto fuori posto, sgombra di valigie e bauli, esattamente come l'aveva lasciata quella mattina. Anche i cassetti del comò, appartenuti a Eìos, rimanevano vuoti, così come l'armadio.
Non c'erano tracce di alcuna intrusione come aveva temuto.
Cercò Alvita per chiederle spiegazioni e la trovò nella camera degli ospiti, il letto già vestito di candide lenzuola, intenta a disfare bauli e a riempire cassetti.
Eìos aveva deciso di alloggiare in quella stanza, non in quella padronale insieme a lei e la sorpresa fece barcollare la rabbia per il sopruso. Tutta la tenacia che si era prefissata di opporre a Eìos si affievolì in uno strano smarrimento, in uno sconcerto curioso per quella decisione inaspettata. Un poco della dolcezza che suo marito aveva dimostrato di possedere nei mesi buoni del loro matrimonio, tornò a fare capolino tra i difetti imperdonabili e l'egoismo.
Ma la breccia che il ricordo di quei giorni aveva fatto nelle sue difese rimaneva ancora troppo piccola, perché Ariela cedesse e accettasse il ritorno di lui in quella casa e soprattutto nel proprio cuore.
Così persistette nel proprio intento di evitare Eìos, disertò il pranzo e poi la cena, facendosi servire in camera.
Eìos, dal canto suo, non la cercò, né chiese il perché della sua assenza: comprendeva che avrebbe dovuto darle il tempo necessario a gestire la convivenza forzata, anche se il desiderio di guardarla soltanto lo faceva smaniare e lo rendeva inquieto.
Decise così di uscire, una boccata d'aria gli avrebbe rinfrescato le idee e anche i bollori.
Ma quando mise piede di nuovo in casa, nell'oscurità delle stanze, nel silenzio della notte fonda, la smania e il tormento bussarono ancora alla bocca del suo stomaco aggrovigliato e l'immagine che conservava della propria donna baluginò come un lampo improvviso e lo costrinse a cedere al desiderio accecante di lei.
La porta della stanza era chiusa, ma non a chiave come aveva temuto, così più silenzioso di un gatto e con solo il lume di una candela, abbassò la maniglia e spinse, quel tanto necessario ad entrare.
Ariela dormiva, le lenzuola erano aggrovigliate intorno al corpo; fasciavano le gambe, come una sontuosa coda di sirena. Il capo era abbandonato sul cuscino, la chioma morbida e lucente al timido riverbero di candela e la pelle, bianca e luminosa, emanava un candore latteo.
Si avvicinò trattenendo il respiro, ipnotizzato dal richiamo di quel corpo.
Un inaspettato e intenso aroma, delicato e tenero, gli provocò una sferzata di energia che gli invase il petto, le narici, il cervello, le vene e il cuore. Profumo di dalie e lillà riempì l'intera stanza come fosse una serra e, quando le fu più vicino, accanto alla sponda del letto, divenne più intenso e conquistatore.
Gli occhi scorsero sull'incarnato del viso, raggiunsero le palpebre, orlate dalle ciglia nere e lunghe e poi cercarono le labbra fresche e piene, leggermente schiuse e invitanti.
Poggiò la candela sul comodino e sedette, il peso del corpo incavò la superficie del materasso, facendo destare Ariela.
La giovane, stralunata e spaventata da quel risveglio imprevisto, saltò a sedere, tirandosi le lenzuola fino al collo, come fanno i bambini di notte per paura del buio.
- Non volevo spaventarti ... - si scusò Eìos, cercando nella semioscurità gli occhi di lei.
- Perché sei qui, allora? - indagò, con la voce un po' tremolante.
- Avevo bisogno di parlarti. -
- Avresti potuto aspettare che facesse giorno. - protestò, raccogliendo sulla nuca alcune ciocche che si erano liberate sul viso.
- Voglio farlo adesso! - insistette.
- Non fai altro che imporre la tua volontà agli altri! - lo accusò, ancora indignata per la decisione di ritornare a vivere in quella casa, senza che ella fosse d'accordo. - Sei sempre lo stesso prepotente ... -
- Sono stato costretto! Tu mi hai costretto! - la interruppe, con un leggero risentimento nella voce.
- ... E ipocrita. - riprese, - Riesci sempre a trovare un altro colpevole per giustificare le tue azioni scellerate: la sorte avversa, la mancanza di un focolare e persino la titubanza di chi da te è stato tradito! - gli fece notare, riferendosi alle vicissitudini subite e infine a sé stessa.
Eìos le scoccò un occhiata truce, ma non desistette. Rimase fermo, seduto sulle lenzuola che le attorcigliavano le gambe, inpedendole qualsiasi movimento.
Ariela sbuffò, rendendosi conto che qualunque protesta sarebbe stata vana, e si arrese.
- Lascia che mi vesta, almeno. - aggiunse, stringendosi al petto i lembi disordinati delle lenzuola.
- Non proverai imbarazzo a mostrarti in camicia? - la canzonò.
- Eìos ... - sospirò Ariela, seccata, tendendo la mano verso la vestaglia poggiata sulla sponda del letto.
Eìos con una smorfia di disappunto, la raccolse e gliela porse, offrendosi di aiutarla.
Ariela accettò, seppur malvolentieri, e quando l'ebbe indossata, lo precedette in fondo alla stanza, accanto al camino.
Dalla sua bocca proveniva una luce fioca; un fuoco ormai morente, ma dai tizzoni ancora roventi, emanava un flebile calore. Eìos smosse le braci con la punta dell'attizzatoio e, gettandovi sopra piccoli rametti secchi, ravvivò la fiamma, che ricominciò a rosicchiare i ceppi e a diffondere calore nell'aria gelata della notte.
- Dunque? - lo esortò, fissando il guizzo crescente delle lingue di fuoco e stringendosi nella calda vestaglia.
Eìos scosse il capo, come uno scolaro che interrogato non ricorda la lezione appena impartita dal maestro.
- Non so ... - mugolò, perdendo tutta la baldanza di prima, - Volevo solo ... guardarti. Dirti che ... - si fermò per respirare, - ... Torna con me! - la implorò.
Ariela sorrise scuotendo il capo.
Eìos sembrava un bambino che dopo l'ennesima marachella torna a stringersi alle gonne della madre, pentito e pieno di buoni propositi.
- Mi hai umiliato ... - gli ricodò, con nella voce tutta l'ombra dolente della ferita, - Mi hai trattato come se non avessi peso o valore alcuno nell'ordine delle cose. E continui a farlo, adesso, imponendomi la tua presenza in questa casa, in nome di un matrimonio che tu stesso hai denigrato ... -
- Ariela ... - sembrò pregarla con un filo di voce e, posandole il palmo aperto della mano sulla schiena, cercò i suoi occhi e il suo respiro.
- E sfacciato chiedi perdono ... - incalzò alterando la voce granulosa, - In nome di cosa? -
- In nome dei miei sentimenti e dei tuoi. - replicò riprendendo la foga che poco prima sembrava averlo abbandonato. - In cuor tuo, sai che t'amo, senza respiro, né requie e nonostante le fughe e il carattere ispido ed egoista ... - insistette, avvicinando le labbra al lobo del suo orecchio, - Così come tu mi ami. - aggiunse, baciandole la pelle delicata e trionfante del suo profumo. - Tu lo sai, eppure ... per orgoglio ti neghi. -
- Sono orgogliosa, sì! E non te la do vinta, nemmeno per lusinghe languide ... con cui cerchi di tentarmi ... - provò ad opporre resistenza.
Eìos la guardò: gli occhi erano liquidi, il blu del mare in tempesta, e le labbra tese si erano fatte sottili e scarlatte; la pelle bianchissima, come le nevi perenni, si accendeva di fuoco sulle guance e il petto si ingrossava di respiro risentito.
Non l'aveva mai vista così bella e viva, fremente e ribelle, come una gatta arruffata e indipendente, opportunista e ingrata. Così, il desiderio divenne urgenza improrogabile che lo indusse ad afferrarle il viso con i palmi aperti delle mani, l'incarnato di latte si sciolse nel calore scuro delle dita e le labbra si aprirono a cercare il respiro che sembrava mancarle nei polmoni.
Ariela chiuse gli occhi, poggiò le mani sui palmi di quelle di lui, ma non per allentarne la presa. Anzi, strinse più forte, come se pretendesse un contatto ancora più insistente; come se in quel momento, invocasse non la libertà, ma la prigionia.
L'amava e l'odiava.
Detestava la sua prepotenza, eppure non desiderava altro che le imponesse la sua bocca e le mani sul viso, a bruciarle la pelle, a fonderne l'orgoglio stupido che le rivestiva il cuore.
Voleva baciarlo e voleva morderlo, per restituirgli il male che le sue promesse vane e la fuga le avevano provocato; tirargli i capelli e graffiargli la faccia, mentre lo accarezzava.
Male e bene; prevaricazione e resa si mescolarono a tal punto, che tutto divenne incontrollabile, trascinante e allucinante, eccitante e incomprensibile, come l'erba gatta per i felini.
Nessuno dei due comprese lucidamente movimenti e desideri; palpiti e respiri che li scagliavano l'uno addosso all'altro, come quelle onde marine che, per effetto di correnti contrastanti, impattano le une sulle altre, spumose e sfrigolanti, per poi fondersi in un unico flusso.
Furono sul letto, già scombinato; gli indumenti, come barriere fastidiose e le mani senza freni o limiti: sui seni e sul petto; tra le cosce e sui muscoli della schiena. Le dita, come pennelli intinti nel fuoco, a bruciare labbra piene e umide; ventre e natiche; caviglie e polsi. I denti a marchiare i fianchi e il mento, lobi e palmi aperti delle mani e le lingue sagge alla ricerca delle ferite inferte per amore, a lenire, inumidire, sedare buciore e impeto, sete e fame.
Si amarono e si odiarono, in mezzo a strappi di lenzuola e schiocchi di lingue; con occhi spalancati e febbricitanti, così travolti da sembrare pirati feroci all'arrembaggio.  

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Bentrovate!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e aspetto le vostre recensioni.
Grazie a chi mi segue, anche in silenzio, e grazie soprattutto a chi mi mi sostiene con i propri voti e commenti.

In nome del sangue, in nome dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora