. 34 . Storia di un duello

33 5 0
                                    

. 34 . Storia di un duello  

Le campane della chiesa maggiore rintoccarono la quinta ora, lente e grevi, come un presagio di morte.
La campagna giaceva ancora ovattata nella brina; il chiarore del giorno tardava a divincolarsi dai tentacoli di una notte lunga e troppo fredda per quei giorni d’autunno.
Il luogo scelto da Miran era, come di consuetudine, riservato, silenzioso e solenne, come quello destinato ad un sacrificio propiziatorio.
Quando Eìos e Betel vi giunsero in sella ai propri cavalli, lo schiocco pesante degli zoccoli sulla terra battuta risuonò, l’urlo di un barbaro nel mezzo di un rito ancestrale.
Miran era già lì, pronto e concentrato, con al proprio fianco Caled, che aveva evidentemente scelto come secondo, e un altro uomo, che Eìos non aveva mai veduto. Il viso era contratto e cupo; profonde rughe lo facevano assomigliare ad un vecchio stanco, dal corpo sofferente, ma gli occhi recavano, determinati e fieri, la punta di orgoglio di chi si appresta a difendere la propria anima lesa e infangata, attraverso un rito nobile e catartico.
Per Eìos, di contro, quel rituale era ridicolo, come tutte le convenzioni di una società falsa e perbenista che aveva voluto codificare una necessità istintiva, attraverso cavilli superflui e valori astratti. Se per un'offesa ricevuta non sono sufficienti le parole, bastano le mani nude, un corpo a corpo leale, non per farsi giustizia da sé, ma per mostrare valore e istinto e anima.
Ma gli uomini si considerano evoluti perché affidano le sorti di una contesa ad un rito simbolico, piuttosto che alle parole, e non si accorgono di rimanere dei barbari, alla stessa risma degli animali, dove il maschio più forte domina il branco.
Smontarono da cavallo all'unisono, in accordo perfetto, composto e silenzioso, come i felini che si preparano alla caccia. Il dottor Elmisk li raggiunse con il suo calesse, qualche istante dopo; Betel vi si avvicinò e lo aiutò a smontare. Egli sarebbe stato l'altro accompagnatore di Eìos, nonché il medico che avrebbe dovuto appurare la capacità del contendente eventualmente ferito a proseguire.
Eìos sfilò la giacca e il panciotto, rimanendo con la sola camicia candida e profumata dei rametti di lavanda che Ariela soleva riporre tra la biancheria. Allargò le braccia, esponendo il petto e il torace all'uomo di cui non conosceva il nome, e si lasciò perquisire, affinché si accertasse che non nascondesse armi.
Così fece il dottore con Miran.
Entrambi i contendenti rimasero di schiena, per non guardarsi, fino a che non fossero stati l'uno di fronte all'altro, pronti a fare fuoco.
Betel slacciò la fibbia d’avorio che legava i lembi del mantello, si portò al centro della radura e si apprestò a misurare la distanza concordata. Contò i venti passi convenuti e conficcò nel terreno, ancora umido e molle, un bastone per indicare il punto esatto in cui Eìos avrebbe dovuto posizionarsi.
Specularmente, Caled fece lo stesso.
Lo sconosciuto offrì a Betel il cofanetto con le armi, perché potesse esaminarne il contenuto. Era di finitura elegante, in pregiato legno di mogano, commissionato appositamente all'armaiolo di famiglia e recava impresso a fuoco lo stemma della casa di Mikra; la piccola chiave nella serratura di bronzo scattò una sola volta e, sollevato il coperchio, l'arabo osservò le due pistole alloggiate in scomparti di velluto verde.
Ne scelse una; ne impugnò il calcio in noce, soppesandone la maneggevolezza e, mirando ad un ideale bersaglio, la puntò dritta davanti a sé; alzò il cane e premette il grilletto, simulando un tiro di prova. Infine la caricò dei colpi necessari al duello. Non più di tre per ciascun contendente, come era in uso.
Eìos era rimasto in disparte, con gli occhi chiusi e un mare di frammenti appuntiti di pensieri dentro il cervello, che gli negavano, per la prima volta, la giusta concentrazione. 

La dimora di città della casata di Mikra era maestosa e ricca.
Il grande portone in legno massiccio recava sulla volta in pietra che lo incorniciava, il grande stemma di famiglia: un drago rampante con le ali spiegate e tra gli artigli una spada.
Eìos vi passò davanti; aggirò il perimetro della costruzione e giunto sul retro, scorse, tra le inferriate della recinzione, una finestra aperta al piano terra. Le luci all'interno erano spente, così come in tutte le altre stanze, segno che la servitù e i proprietari, si erano già ritirati per la notte. Protetto dal buio, si arrampicò sui ferri e, accertatosi che non vi fosse alcuno in quella parte del grande giardino che circondava la casa, atterrò al suolo, leggero e silenzioso. Proseguì, acquattandosi dietro i cespugli, fino a che giunse alla finestra e ne scavalcò il davanzale.
Contro il parere di tutti, aveva deciso di fare un ultimo tentativo e cercare di convincere Miran a desistere da ogni proposito di vendetta. Non era, Eìos, un diplomatico, le parole uscivano sempre a fatica dalla sua bocca e, quando riusciva a liberarle, erano sempre pungenti e sarcastiche, maleducate e irriverenti, tanto che, la maggior parte delle volte, sortivano l’esatto effetto contrario.
Ma adoprarsi per farsi comprendere, quella volta, era vitale: ne andava della loro esistenza, sua e di suo fratello, di quella della donna che amava e di tutte quelle vite che giravano attorno alle loro. Nonostante il duello sarebbe stato al primo sangue e la vita di entrambi non fosse compromessa, battersi sarebbe stato comunque deleterio, doloroso e definitivo, al pari di una ferita mortale.
Trovarsi di fronte il proprio fratello, con una pistola in pugno, contro il quale, alla stessa maniera, avrebbe puntato la propria, era impossibile da accettare, non prima di aver provato ancora un'ultima volta con le parole.
Portava la pistola per precauzione, con il colpo in canna, ma infilata nella cintola dei calzoni, solo per difendersi nel caso in cui un servitore lo avesse sorpreso mentre si intrufolava nella proprietà.
Ironia della sorte sarebbe stato considerato un ladro per essere entrato in una casa che per metà gli apparteneva!
Raggiunse il piano nobile; attraversò i corridoi, illuminati solo a tratti dalla luce della notte che trapassava i vetri molati, come un gatto nel buio, fino allo studio di Miran. La porta era socchiusa; una lama di luce si insinuava tra le fughe del pavimento di marmo; si allungava in un percorso silenzioso verso l’interno, come fosse l'invito tacito ad entrare.
Prese fiato e coraggio, impugnò l’arma e sospinse la porta; nella semioscurità, intravide suo fratello, accasciato su di una poltrona, lo sguardo assente e un bicchiere colmo di liquore stretto in una mano.
La luce era generata dalle rugose candele disposte negli angoli della stanza, troppo fioca per assicurare una visuale completa e nitida; sul ripiano della scrivania v'erano due bottiglie vuote e, nel posacenere, l'estremità di un sigaro si consumava e diffondeva l'aroma acre del tabacco bruciato.
Miran gli rivolse lo sguardo, distrattamente, immobile, i muscoli abbandonati nel torpore comatoso dell’alcol, gli occhi lucidi e la stanchezza che trapelava dalle rughe su di un volto che aveva smarrito eleganza e fierezza.
- Come sei entrato? – chiese, ingurgitando l'intero contenuto del bicchiere, indifferente, come se non gli interessasse davvero la risposta.
- Da una finestra aperta. Dobbiamo parlare. - rispose, avvicinandosi con circospezione.
- L’unica cosa che dobbiamo fare è batterci … - replicò, asciutto e così distaccato dalle sue stesse parole, che sembrava parlasse per conto di un altro.
- Non voglio battermi, lo sai. - replicò, suscitando sul viso dell'altro, una smorfia ironica dovuta all'arma che brandiva. - Questa … - aggiunse, avendo colto l'espressione, - … è solo una precauzione. Voglio parlare, Miran. Voglio provare a risanare le nostre incomprensioni, spiegarti le mie ragioni, chiedere scusa per gli errori, per il male … -
- Lo sai che è incinta? – lo interruppe di punto in bianco, riferendosi a Nubia.
Eìos scosse il capo: gli ultimi mesi erano stati così concitati, difficili e dolorosi che nessun pensiero, oltre al desiderio di riappropriarsi della libertà e tornare sereno tra le braccia di sua moglie, lo aveva sfiorato. Né Ariela, certamente scossa e distratta dalle sue stesse preoccupazioni, gliene aveva fatto cenno.
- Non è mio, se è questo di cui ti sei convinto. - lo anticipò, sedendosi sul bordo dello scrittoio, l'indice saldo sul grilletto della pistola, ma la canna rivolta verso il pavimento.
- No? Me lo giuri, Eìos, sul tuo onore? - lo irrise, colmando l'ennesimo bicchiere di brandy.
- Non ho onore ... dunque, dovrai accontentarti della mia parola: tra me e Nubia non c'è stato più nulla, dal giorno che sono salpato da Patnarak, due mesi prima del vostro matrimonio. - cercò di spiegare.
- E pretendi che ti creda? Dopo tutte le trame e le menzogne? – replicò.
- Ti comprendo: ho mentito così tante volte nella mia vita, che, ad un certo punto, io stesso non sono più stato in grado di riconoscere la verità. Ho patito la tua stessa sofferenza, sentendomi tradito e umiliato da chi mi aveva messo al mondo, beffato più volte di quanto potessi sopportare. La rabbia, la sete di vendetta hanno generato le menzogne e il ricatto, convincendomi che la vita avesse un debito con me che potevo riscuotere in ogni modo. Ma, proprio quando credevo che mi stesse restituendo ciò che mi apparteneva, la sorte mi ha chiesto il conto ed io l'ho pagato, con la libertà, con lo strappo doloroso dalla donna che amo, con questa distanza maligna che ci mette l'uno contro l'altro. Se nessuna parola può sanare le ferite, né le mie, né le tue, come potrebbe un duello sedare tutto questo astio, tutto questo veleno? Prendiamo ciascuno la propria via, e non facciamoci più male. Noi siamo fratelli, Miran ... il sangue deve pur aver un peso in questa guerra infinita. -
- Ma non capisci che è proprio quel sangue che mi brucia le vene? Non capisci che il solo pensiero che siamo fratelli mi ributta e mi fa avere schifo di me stesso? - lo interruppe, scattando in piedi e avvicinandosi minaccioso.
Le iridi si fecero lucide, affaticate da un pianto rabbioso, che egli per orgoglio virile tratteneva; il viso si fece ancora più pallido e la fronte aggrottata dalle rughe.
Eìos sollevò l'arma per intimorirlo, gliela puntò contro, affondando la canna direttamente nel petto affannato.
- Ti odio e con te odio me stesso proprio perché siamo frutto dello stesso seme. - aggiunse, spingendo tutto il corpo contro la pistola, riducendo più che poteva lo spazio vuoto tra di loro.
- Come vuoi ... - si arrese, seppure riluttante.
Le parole che conosceva non erano servite, così come la volontà di riparare, annegata in un mare di rabbia e dolore.
- Saranno la buona mira e la fortuna a decidere la nostra sorte. -
Ripose la pistola nella cintola dei calzoni e voltò la schiena, lasciando quella stanza pregna dell'odore della sconfitta.
Nulla gli avrebbe più bruciato così in profondità l'anima.
Per tutto il resto della vita. 

A grandi passi, Betel lo raggiunse; con un gesto fluido roteò l’arma nella destra, afferrandola per la lunga canna ottagonale e offrendola all’amico dalla parte dell’impugnatura.
- E’ perfettamente lubrificata. – lo rassicurò, - La calibratura è buona, solo leggermente sbilanciata verso sinistra. – lo avvertì, con una pacca sulla spalla, il palmo della mano aperta e lo sguardo altrove, concedendo a lui e a sé stesso, il solo gesto di compassione che, in quel momento, potesse offrirgli.
Eìos scorciò la manica destra fino al gomito, per avere maggiore libertà di movimento, e impugnò l’arma, sottoponendola al medesimo esame, e, dopo uno sguardo complice, si portò sulla linea immaginaria da cui avrebbe dovuto fare fuoco.
Si trovò così Miran di fronte, ritto a quaranta infiniti passi di distanza; le guance scavate, gli occhi segnati da profonde occhiaie; i capelli impomatati e il colletto della camicia perfettamente inamidato.
Mentre i due puntavano ciascuno i propri occhi in quelli del rivale, un corvo nero sorvolò la radura; il suo verso squarciò l'aria rarefatta, riecheggiò nelle orecchie assuefatte al silenzio innaturale e opprimente, ferendo timpani, respiri e cuore.
Il giudice si fermò nel centro di quel segmento ideale che li divideva, il punto medio di una distanza di incomprensioni e rivalità che non sarebbe mai stata colmata, e, rivolgendosi all’offeso, gridò: - Puntare l’arma. –
Miran obbedì: portò in avanti la parte destra del corpo, il braccio sinistro dietro la schiena e sollevò la pistola, mirando sul suo bersaglio.
- Fuoco! – aggiunse e Miran sparò.
Eìos chiuse gli occhi, sussultando per il fragore dello sparo. Il colpo andò a vuoto: il proiettile si perse in un punto qualunque alle sue spalle, ma la traiettoria corse precisa e vicinissima al suo orecchio sinistro, tanto che il sibilo lo assordò per qualche istante.
Egli scosse il capo e articolò le mandibole, sedando lo ronzio che gli riempiva il cranio, poi riaprì gli occhi e attese il proprio turno.
- Puntare l’arma. – ripeté, meccanicamente, la voce di prima, - Fuoco! – gridò ed Eìos obbedì.
Il colpo andò a vuoto, ma stavolta deliberatamente: il proiettile finì in un punto lontano, al di sopra della spalla sinistra di suo fratello, così lontano dal corpo che fu palese per tutti che il fallimento non fosse questione di cattiva mira.
Quel gesto esacerbò la rabbia di Miran poiché, nel tentativo di risparmiarlo, Eìos lo umiliava, a tal punto che, quando fu nuovamente il proprio turno, il secondo tentativo fu ancora più preciso e pericoloso.
Sfiorò il braccio destro di Eìos, lacerando solo la stoffa della camicia, che si disperse tutt'intorno, come coriandoli candidi, ma non la carne.
Le labbra di Eìos tremarono, come quando si viene investiti da un vento gelido, ma gli occhi rimasero saldi in quelli dell'altro. Miran lo fissava di rimando: la soddisfazione di aver quasi colpito il bersaglio, la sfida, che gli baluginava nello sguardo, erano i testimoni della sua determinazione: se Miran avesse avuto la terza opportunità, quasi certamente avrebbe fatto centro.
Dunque, Eìos non aveva altra scelta che ferirlo per primo e porre fine a quel gioco al massacro.
Quando il giudice lo autorizzò a far fuoco per la seconda volta, Eìos mirò con precisione chirurgica: puntò al dorso della mano destra, che l’altro teneva lungo il fianco, e premette il grilletto.
Il proiettile andò a segno preciso e istantaneo come la lama del bisturi: la pelle si lacerò sotto la scia del suo passaggio, la carne si strappò e schizzi di sangue, imbrattarono il polsino della camicia, i calzoni e la punta lucida dello stivale. Rivoli purpurei scivolarono seguendo le asperità della pelle, sulle nocche, tra gli incavi delle dita contratte, che per il dolore persero la presa sul calcio della pistola, abbandonandola al suolo, già raggiunto dal sangue.
- Non può continuare. - dichiarò il dottore, dopo aver esaminato la ferita, - Il duello è terminato. - aggiunse, fasciando la mano con una benda, in attesa di un intervento più attento.
- Certo che posso! - si ribellò Miran, digrignando i denti per il dolore della ferita, - Io posso ... - ripeté ringhiando, disperato, come gli animali feriti.
Ma la sentenza era inappellabile: le regole, che egli stesso aveva scelto, sancivano la fine della sfida se uno dei contendenti avesse riportato una ferita tale da impedirgli di proseguire.
- Maledetto. - continuò, - Maledetto ... l’ha fatto di proposito. - mugolò, mentre le lacrime gli rigavano la faccia, la mano sana stretta intorno al polso ferito e gli occhi serrati sull'umiliazione della sconfitta.
Eìos lasciò cadere l'arma al suolo e respirò profondamente, come se fosse appena riemerso da un tuffo in mare; inspirò ed espirò una, due, tre volte di fila, poi si avvicinò al proprio cavallo, di cui Betel reggeva le redini e, ancora di spalle, si rivolse a suo fratello: - Finisce qui, Miran. Tra me e te, finisce qui. Non ti mettere sulla mia strada, non minacciarmi mai più, o giuro ... che la prossima volta non avrò riguardo per il mio stesso sangue! -

In nome del sangue, in nome dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora