. 27 . Un nuovo giorno

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. 27 . Un nuovo giorno  

Lo sguardo stravolto di Ariela, prima del tonfo sordo che il corpo di Eìos provocò impattando al suolo, richiamò l'attenzione di Betel che stanco, ma soddisfatto si avvicinava alla casupola.
Gli occhi della giovane sembravano cristallo frantumato e il colorito, già naturalmente latteo, acuì il suo pallore per l'apprensione.
L'arabo fu subito accanto a Eìos, le ginocchia sulla terra umida della notte e le braccia forti a sorreggergli il capo molle e il torace sanguinante.
- E' ferito! - gridò, voltandosi verso gli altri accorsi alle proprie spalle.
Solo Ariela rimase immobile, pietrificata come i malcapitati davanti agli occhi di Medusa.
- Sollevalo ... con cautela! - ordinò Elmisk, pronto e solerte, come la professione medica richiedeva, - Portalo dentro: devo controllare lo stato delle ferite. - spiegò, mentre la voce cominciava a vacillare, insieme alla sua prontezza d'animo, di fronte al figlio ferito.
Da quella prima notte in cui si erano incontrati, diverse volte gli era capitato di dover curare le sue ferite: tumefazioni e piccoli tagli che si procurava in qualche rissa da osteria. La maggior parte delle volte gli era bastato ripulire la ferita, suturare, e bendare la parte o cospargere di unguento le ecchimosi; concludere il proprio intervento professionale con una paternale, talvolta premurosa e accorata, talvolta ruvida e intransigente, alla quale, nell'uno e nell'altro caso, Eìos aveva risposto con la medesima alzata di spalle.
Ma in quel frangente, Elmisk si trovava a fare i conti con all'apprensione per la sua sorte; il coinvolgimento gli faceva tremare le mani, mentre attendeva di conoscere l'entità delle ferite e la quantità di sangue che aveva perduto.
Betel, intanto, sollevò il corpo dell'amico, con la premura che si riserva ad un oggetto fragile che può frantumarsi da un istante all'altro, e superò la soglia di quel rifugio improvvisato.
Constava di una sola stanza: su una delle pareti, alloggiava la bocca larga di un camino, nel quale ardeva già un fuoco scoppiettante; su quella opposta, un giaciglio improvvisato e, al centro, un tavolo lungo e stretto di malandate assi di legno. Negli angoli, attrezzi da lavoro, seghe e asce, che il padre di Ratho utilizzava per fare legna da ardere, nonché trappole e tagliole per la caccia da frodo. Era stato il ragazzino stesso, infatti, a suggerire quella casina come nascondiglio dopo la fuga, poiché nessuno ne conosceva l'esistenza e lo stesso suo vecchio, la usava ormai molto di rado, perché troppo lontana dalla città.
Betel, con il corpo di Eìos tra le braccia, si diresse verso il giaciglio, ma il dottore lo fermò spiegandogli di avere bisogno di un supporto più alto, come un tavolo operatorio, per esaminare ed eventualmente suturare le ferite.
- Adagiatelo qui. - la voce di Ariela risuonò improvvisa. Teneva i palmi aperti su quel tavolato traballante, alto abbastanza da rispondere alle esigenze del dottore, e gli occhi appuntati su corpo del marito, molle e abbandonato, senza forze e senza volontà.
L'arabo eseguì l'ordine, sforzandosi di ignorare la stanchezza dei muscoli di braccia e gambe, così a lungo provati.
Eìos era cosciente, anche se le palpebre erano serrate e il colorito esangue. Chiamava il nome di Ariela, in una cantilena roca, una preghiera commovente e dolorosa ed ella continuava a guardarlo, le pupille sempre più perdute tra le lacrime e le labbra tremule che trattenevano un pianto dirotto.
Quando il corpo dolorante e sfinito toccò la superficie del tavolo, Eìos si impose di sollevare le palpebre, nonostante fossero pesanti come piombo, per guardarsi intorno e cercare lei, la cui voce, sembrava solo frutto di un sogno, ma del profumo sincero della cui pelle aveva la percezione indiscutibile.
Fu nell'istante preciso in cui i loro occhi si fusero, liquidi di lacrime e sofferenza, che un'altra donna si prese le membra di lei, come in una possessione. La forza di una valchiria animò le sue vene: un'intraprendenza e una determinazione, inconsuete, ma necessarie, la costrinsero ad arginare il dolore per la vista di quelle carni sanguinolente e per quella vita aggrappata al filo dei suoi occhi e consegnata anche nelle sue mani.
- Sollevategli il capo. - ordinò a Betel, mentre slegava i lacci che chiudevano alla gola i lembi del suo mantello. Lo ripiegò con cura, lo frappose tra la testa e il ripiano di legno, alla stregua di un guanciale, per rendere conforto al fisico provato e stanco del suo uomo; poi gli strinse la mano, con una presa salda e incoraggiante.
- Corri a prendere dell'acqua, Ratho ... e mettila sul fuoco, ne ho bisogno per ripulire le ferite. - Elmisk ordinò al ragazzo che, immobile sulla soglia, spaurito e disorientato, si torceva i lembi della camicia.
Il ragazzo scattò come un grillo, afferrando il calderone di rame e spalancando la porta per correre al ruscello ed eseguire l'ordine.
Elmisk strappò la stoffa della camicia, constatando che la lesione sull'addome non era grave, ma l'emorragia andava comunque fermata tempestivamente.
- Ho bisogno di un fazzoletto, un foulard o un qualunque altro tessuto, possibilmente pulito. - spiegò, guardandosi intorno in cerca di qualcosa da adoperare come tampone di fortuna.
Ariela non esitò: lasciò la mano di Eìos e si voltò di schiena; sollevò le gonne e sfilò le sottane. Ne portò alla bocca l'orlo e incise il tessuto con i denti; afferrò il due lembi e con le mani lo strappò lungo la trama. Ripeté l'operazione più volte, fino a che non ebbe a disposizione un numero considerevole di strisce di stoffa, lunghe, morbide e pulite.
- Adoperate queste ... - disse, porgendole a Elmisk.
Il dottore annuì, per poi suggerirle: - Ripiegatene una ... E comprimetela sulla ferita ... qui. - indicò il punto in cui premere fortemente il tampone. Ariela, nonostante il disgusto per il sangue rappreso sulla pelle e la vista delle carni lacerate, obbedì, premendo sull'addome, con la mano sinistra, e carezzando la fronte madida con l'altra.
Il dottore afferrò un paio di grosse forbici dalla sua valigetta medica e tagliò la stoffa dei calzoni sulla coscia ferita. Un foro di proiettile la trapassava da parte a parte e il sangue, rosso come i rubini, fuoriusciva a fiotti intermittenti, assecondando il ritmo cardiaco. Era stato reciso un vaso, per fortuna non troppo profondo, ma la quantità di sangue versato doveva essere comunque copiosa, calcolando i tempi lunghi della fuga, dunque, non sarebbe stato sufficiente comprimere la ferita, come aveva fatto per l'addome, ma era necessario un intervento più drastico.
- Tu ... - continuò, rivolgendosi a Betel, - Sfilagli la cintola dai calzoni e legala, il più stretto possibile, sulla coscia, al di sopra della ferita. - ordinò, mentre estraeva da un astuccio un bisturi affilato e lucente. - Questo gli farà male ... - spiegò all'arabo, fermo al fianco dell'amico, come un custode, e pronto a rendersi utile. - Tienigli ferme le gambe. - aggiunse.
- Stringi i denti ... - lo incoraggiò, sistemandosi ai suoi piedi, per serrargli le caviglie con le mani, perché il dolore dell'incisione non lo facesse scalciare.
Il viso di Ariela si avvicinò a quello di Eios: un anelito di vita, pulito e docile, gli attraversò i polmoni e il petto si gonfiò, incoraggiato alla nuova prova di dolore; le labbra gli sfiorarono l'orecchio, sussurrando suoni dolci, ricordi di baci e carezze, di parole di fiamma sotto la luce oscillante di candele nella notte, di amore e fiducia e di promesse per tutti i giorni a venire, placidi e sereni.
La mano libera umettò le labbra spaccate dalla sete, con una striscia di stoffa imbevuta nell'acqua gelida, che Ratho le aveva versato in un catino; gli ripulì il viso dal sudore e dalle lacrime che continuavano a segnargli occhi e guance, con tale amorevole premura, da alleviargli il bruciore e la sete, con un solo tocco.
Il dottor Elmisk, a sua volta, ripulì la coscia dal sangue rappreso; ispirò, facendo appello all'esperienza di anni di pratica; premette la mano sinistra sull'arto e ne incise la carne, in prossimità del foro, per accedere agevolmente al vaso leso.
Un lamento roco, profondo e lacerante risalì per la gola arsa di Eìos, protraendosi per il tempo infinito del taglio; fuoco e fiamme sembrarono lambirgli pelle e carne e muscoli, bruciando anche l'anima; le mani strinsero le assi del tavolo, con tutta la forza che le povere dita conservavano ancora; le unghie incisero il legno e piccolissime schegge si conficcarono nella carne morbida al di sotto di esse. Ma gli occhi non si chiusero, sfidarono il dolore, come i soldati in prima linea, che sanno di essere già carne morta. Rimasero in quelli di lei, annegando nei bagliori di luce che emanavano, un faro nella notte ad indicare la fine del cammino.
- Sono qui ... sono qui. - gli sussurrò più volte, lasciandosi guardare, con una voce incantatrice, dolce e vaga, dalla quale una forza celeste prorompeva.
Il dottor Elmisk si mosse veloce; con provata destrezza preparò l'ago e il filo di seta per la sutura, divaricò il taglio e cominciò a cucire. L'ago entrava e usciva, unendo i lembi sfrangiati e sottili, mentre il dolore bruciante gli spezzava il respiro in piccoli ansimi insufficienti a ricaricare i polmoni. L'intero corpo rimase immerso nelle fiamme, come se ogni parte di esso, ogni muscolo, ogni lembo di pelle si fossero stracciati, sfilacciati in mille ferite, fino a che il dottore non ebbe dato l'ultimo punto.
Solo in quel momento i muscoli allentarono la tensione, rimanendo indolenziti, in attesa che il tempo, come un onda purificatrice, si portasse via gli uncini che sembravano essere conficcati nel corpo.
- Ho terminato, figliolo. - lo rassicurò, - Ora non resta che ripulire le ferite e fasciarle ... - concluse, passandosi il dorso della mano sulla fronte imperlata di sudore.
Il giorno intanto nasceva, fuori da quelle mura arrangiate; l'aria si riscaldava e il bosco tornava a parlare la sua lingua sommessa, fatta del frullare dei passeri, del fruscio delle foglie, del soffio sottile del vento tra i rami più alti.
Così rinasceva anche il suo corpo, vessato dalle ferite e dallo sforzo di assecondarne il dolore, e insieme ad esso rinasceva la propria esistenza, che per ore si era aggrappata ad una forza invisibile che navigava nelle parole di lei, nelle dita che, come radici sottili gli si erano avvinghiate attorno per sostenerlo, e nei suoi occhi, diafani testimoni della sua anima.
Le ferite furono ripulite attentamente, disinfettate e poi bendate con le sottane di Ariela. Con esse a stringergli il costato e la coscia, il profumo di acqua e rose si attaccò alla propria pelle, lo acquietò come accade ai bambini che si addormentano sereni, confortati da un profumo familiare. Cadde in un sonno profondo, lentamente, accompagnato dalle mani di lei, che gli sfioravano il viso; distendevano le rughe della fronte; carezzavano le palpebre pesanti, il profilo del naso, il contorno delle labbra e la linea ispida della mascella.
La notte ristoratrice di Eìos giunse, mentre nasceva il giorno, un nuovo giorno caldo e carico di libertà.

In nome del sangue, in nome dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora