Samael

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Fuori dal Joyce tre cose furono subito evidenti a Mabel: Jenny che guardava uno sconosciuto in maglietta nera; l'espressione sgomenta del ragazzo davanti alla sua moto; lo sguardo bruciante della folla radunatasi attorno.

– Mabel che sta succedendo? Perché ti guardano tutti?

Non fece in tempo a rispondere a Jenny. Il ragazzo della moto si voltò nella sua direzione e ghignando disse:

– Succede che a qualcuno qui piace fare scherzi, vero "M-a-b-e-l"?

Scandì il suo nome come se le lettere dovessero imprimersi a fuoco nell'aria circostante.

Mabel mosse qualche passo. Avvertiva sulla pelle il muto rimprovero dei curiosi ma il brusio di fondo non riusciva a distoglierla del tutto dal suo proposito. Sapeva di essere nel giusto e non si sarebbe fatta intimorire.

– A qualcun altro invece piace dare fastidio al prossimo.

Il ragazzo puntò gli occhi nei suoi. L'illuminazione non era delle migliori in quel parcheggio; erano pochi i lampioni funzionanti che rischiaravano il nero denso della notte.

"Sarà per questo grottesco gioco di luci che guardarlo mi mette i brividi," pensò Mabel, "o forse mi sto autosuggestionando."

Dentro le si accese un campanello di allarme e sentì il bisogno di avvicinarsi alla macchina. Tutti i clienti del Joyce erano rientrati nel locale, delusi dal non aver trovato nulla di rilevante di cui parlare le sere successive. Spettrale. L'unico termine che le venisse in mente per riassumere la desolazione di quel posto in quel momento. Perfino l'aria sembrava essersi fatta più densa.

– Con tutto questo spazio a disposizione, – Mabel allargò le braccia, – avresti potuto parcheggiare ovunque ed evitare di bloccarmi l'uscita.

Con un movimento fulmineo il ragazzo le si parò davanti; fu allora che ebbe modo di osservarlo bene. Alto, con un fisico atletico e un bel viso. La T-shirt appariva tesa sopra il petto e si incavava leggermente in corrispondenza del ventre ma tutto questo passava in secondo piano quando si incrociavano i suoi occhi. Sembrava brillassero. I riflessi metallici delle auto colpite in pieno dal cono di luce, il suo atteggiamento arrogante e sprezzante, contribuirono nel conferirgli un'aria luciferina. La inchiodò sul posto, impedendole di distogliere lo sguardo.

– Bene, bene, – continuò ad avanzare, – ammetto di esserci cascato con tutte le scarpe, ma il gioco finisce qui.

Mabel indietreggiò istintivamente. Sentiva la bocca secca e le labbra incollate.

– Hai perso la lingua? – un sopracciglio si alzò, a metà tra l'ironico e il provocatorio, – Se vuoi ti aiuto io a ritrovarla.

Si sentì avvampare. Non era abituata a sentirsi così indifesa, lei che teneva sempre testa a tutti, soprattutto ai prepotenti. Eppure la stava rendendo tanto nervosa da offuscarle la capacità di giudizio. Quando le sue gambe nude toccarono la lamina fredda della portiera, fu allora che si accorse di essere arrivata alla macchina. Era in trappola.

Lui fece altri due passi con tutta la calma del mondo, pregustando l'elettricità che andava a riempire lo spazio ormai sottilissimo rimasto tra loro; solo qualche centimetro a impedire che i corpi si toccassero. Mabel si costrinse a sostenere il suo sguardo, ma quegli occhi le bruciavano dentro.

"Che diavolo mi prende? Mi sto comportando come un coniglio spaventato. Devo reagire." Pensò, raccogliendo tutta la sfrontatezza che riuscì a far risalire dal profondo del suo animo.

– L'unica cosa che accetterò da te saranno delle scuse.

Un sorriso si dipinse sul volto del ragazzo. No, non un sorriso. A ben vedere, sembrava il taglio netto di un pittore inciso su una tela in un moto d'ira. Una linea orizzontale, senza palpabili emozioni, si aprì sotto il fuoco del suo sguardo.

"Non è un sorriso," pensò Mabel, "sono solo denti."

– Sei impudente e anche avventata. Sai perché? – quella voce fu un sussurro, un alito di vento che Mabel avvertì sul collo, teso a tal punto che si sarebbe potuto vedere il sangue scorrerle sottopelle.

– A te piace scherzare e a me piace giocare. E vinco sempre quando le regole le detto io.

Una spinta energica con cui allontanarlo per poi aprire la portiera dell'auto e chiudersi dentro, intimando a Jenny di fare lo stesso. Sarebbe bastato questo per uscire da quell'impasse, ma Mabel rimase pietrificata.

"Jenny!"

Con uno sforzo titanico distolse l'attenzione dallo sconosciuto e andò alla ricerca di sua cugina. Contrariamente alle sue aspettative, non la trovò affatto sconvolta. Sul viso solo un'espressione perplessa.

– Mabel, stai bene? – le parole di Jenny la raggiunsero a malapena, come quei suoni che si avvertono durante i sogni. Annuì per rassicurarla e mise tutto il suo impegno per far uscire la voce che le rimaneva:

– Sposta la tua moto per favore e lasciaci andare.

Il ragazzo fece un passo indietro e alzò le mani, il suo sorriso sembrò addolcirsi.

– Bastava chiedere.

Solo allora Mabel notò un gruppetto di motociclisti poco lontano. Le loro risate sguaiate ruppero definitivamente quell'atmosfera sospesa. Il ragazzo tirò fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi, salì in sella al bolide e mise in moto. Mabel riprese coscienza del suo corpo, si guardò attorno e abbandonò la lamiera dell'auto con la quale stava diventando un tutt'uno.

– So che te lo stai chiedendo da un po', perciò sarò clemente e ti toglierò ogni dubbio.

Mabel gli riservò un'occhiata interrogativa poi aprì la portiera e con un cenno invitò Jenny a sedersi.

– Samael. È stato un vero piacere conoscerti, Mabel.

"Samael".

Quel nome le riecheggiò nella testa mentre con movimenti automatici ingranava la retro per uscire dal parcheggio. Continuò a ripeterselo sfrecciando con il finestrino abbassato, senza badare alle lamentele di Jenny sull'impennarsi delle probabilità di incidenti automobilistici di notte. La cugina aveva iniziato a straparlare. Accese la radio.

Nell'abitacolo rimasero ad aleggiare le note di "Back to black" e quel nome che, Mabel ne era certa, non avrebbe dimenticato.

Nell'abitacolo rimasero ad aleggiare le note di "Back to black" e quel nome che, Mabel ne era certa, non avrebbe dimenticato

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