Mabel

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– Può dirmi se qui lavora una certa Mabel?

Mabel non riuscì a impedirsi di assumere un'espressione corrucciata. Fece il possibile per celare la sua irritazione e rispose in tono asciutto:

– Sono io.

Il suo interlocutore la squadrò da sopra a sotto e da sotto a sopra, senza nemmeno degnarsi di dissimulare una certa morbosa attenzione, del tutto ingiustificata. Poi si tolse gli occhiali e la guardò dritta in faccia, strizzando leggermente gli occhi, come se volesse mettere a fuoco un'immagine che gli apparisse sfocata. Eppure la ragazza era lì, a meno di un metro di distanza, che lo fissava a sua volta con aria interdetta. L'istinto di Mabel difficilmente sbagliava e in quel momento le suggeriva in maniera non troppo velata di stare attenta. Sembrava che l'altro volesse testare il suo grado di pazienza e, dopo un mutismo che le sembrò durare un'eternità, alla fine si pronunciò:

– Agente Henry Walker, piacere.

Mabel annuì impercettibilmente, sperando che si sbrigasse a vuotare il sacco, permettendole quanto prima di mettersi a lavoro. Il poliziotto non era dello stesso avviso; arricciò le labbra e si chiuse in un silenzio indagatore. L'imbarazzo divenne tangibile ma lei era ormai decisa a non cedere le armi. Sapeva che quel tipo di approccio non era mai casuale; probabilmente la tattica dell'agente serviva a indurla ad abbassare lo sguardo, in un'implicita ammissione di colpa. Conosceva fin troppo bene alcune dinamiche care alla polizia locale, residui di una visione retrograda e maschilista, che tendeva a imputare alle donne crimini dei quali erano unicamente vittime. 

– Dovrei farle solo alcune domande riguardo quanto successo al muro qui fuori.

Eccolo, il primo tranello. Se avesse ingenuamente chiesto a cosa si stesse riferendo, non solo gli avrebbe fornito l'assist perfetto per qualche battutina al vetriolo, ma avrebbe avallato l'ipotesi malsana che lei fosse in qualche modo responsabile dell'atto vandalico.

– Come detto prima, sono a disposizione, agente Walker.

– Bene, – si limitò a dire il poliziotto mentre un sorrisetto ironico gli compariva sul volto.

"Arriva al punto, dannato piedipiatti", pensò o meglio urlò nella sua testa, ma le sue aspettative vennero nuovamente disilluse.

– Da quanto lavora qui? – attaccò Henry.

– Quasi un anno.

– Suppongo che sia la sua famiglia che i suoi amici ne siano a conoscenza.

Mabel si irrigidì leggermente nel sentire la sua famiglia chiamata in causa, ma considerò che fosse meglio far condurre a lui le danze e guadagnare una chance in più per andare a vedere il suo bluff.

– Sì, agente.

– Le viene in mente nessuno, qualche amichetto esuberante magari, che abbia deciso di farle uno scherzo? – l'accento cadde studiatamente sul termine "amichetto" e si schiantò addosso a Mabel con la stessa delicatezza di un sasso contro una finestra. La ragazza si morse l'interno delle labbra e diede fondo a tutta la sua pazienza per non sbottare in malo modo.

– Nessuno dei miei amici vandalizzerebbe la facciata di un palazzo, – rispose seria, ignorando la provocazione.

– Ha ragione, chiamarlo scherzo è un po' riduttivo. Immagino che l'artefice di un tale gesto debba avercela con lei per "qualche motivo", – questa volta marcò le ultime due parole, nella subdola insinuazione che qualcosa avesse pur fatto per meritarsi un trattamento del genere.

Fu colpa dell'esasperazione o di una conversazione che per Mabel stava virando ormai verso il paradossale, ma le venne di colpo in mente sua cugina Jenny che, brandendo un paio di scarpe tacco dodici, la minacciava di morte per decapitazione se si fosse rifiutata di prestargliele. Dovette sforzarsi di non sorridere. Ripreso il totale controllo dei suoi muscoli facciali, rispose:

Ab Imo PectoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora