Dennis

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maggio 2006

Scratch - scratch - scratch.

Dennis gratta con l'unghia il muro insudiciato della stanza in cui l'hanno rinchiuso. Stanza è un termine lusinghiero da rivolgere a quelle quattro pareti ricoperte di macchie di origine non identificata, scritte oscene e segni lasciati da menti altrettanto oscene.

Se ne sta attonito, a fissare qualcosa che non vede, assorbito da quel movimento minuscolo e dal suono che produce il suo dito indice mentre sbriciola pezzettini di intonaco. Una velocità costante, un rumore costante. E se qualcuno si stesse interrogando sul suo gesto, adducendolo al nervosismo o all'agitazione del suo animo, quel qualcuno sarebbe molto, molto lontano dall'afferrare la verità.

Scratch - scratch - scratch.

Perché la verità è che Dennis prova una sola ed esclusiva emozione dal giorno in cui lo hanno trasferito dall'istituto correttivo in quel girone dei dannati, in attesa del processo. Noia. Solo noia.

Avrebbe dovuto provare rabbia. Avrebbe dovuto provare tristezza infinita o terrore, disperazione, qualsiasi cosa, qualsiasi cosa che lo mostrasse agli occhi della giuria come un comune essere umano; "ancora meglio se innocente", gli ha detto un signore vestito elegante con una valigetta.

A Dennis non importa nulla di sembrare innocente. Non gli importa nemmeno di sembrare colpevole. Non gli interessa più il significato delle parole.

"Guardie succhiatemi il cazzo", "Agli infami rompiamo il culo", "Chinga a tu madre"; gratta sulla parete. Scortica parole come fossero l'origine di tutti i suoi tormenti. Vorrebbe cancellare il linguaggio dalla faccia della terra perché a quello riconduce il suo essere inadatto. L'incomunicabilità e l'osannata comunicazione; per Dennis sono due facce della stessa identica medaglia, la solitudine. Lui non ha nulla da dire. Non ce l'ha mai avuto, da quando ne ha memoria. Non vuole affermarsi, non vuole difendersi. Vuole solo scomparire, nel silenzio.

La sua mente si è inceppata dopo quella notte terribile e lui è come regredito. Chiuso nel suo mutismo non solo ignora qualsiasi contatto con altre forme di vita, ma sembra dimentico di essere egli stesso un essere vivente. Si focalizza su dettagli infinitesimali; un forellino nel muro, una mattonella scheggiata o una gomma masticata attaccata sotto una mensola. E fissa questi difetti e questi resti, come se potesse entrarci dentro, sprofondarci. Si lascia assorbire dall'irregolarità degli scarti perché ci trova familiarità. Ha perso il conto di tutte le volte in cui è stato rifiutato. Rifiutato dalla sua stessa vita. Accantonato e dimenticato. Come un chewing-gum a cui, a suon di denti, è stato estratto ogni succo e sputato perché ormai privo di sapore.

Scratch - scratch - scratch.

Si sente così, intruso di se stesso. Eppure non lotta, non più. Ha abbandonato le armi. Gli sono state strappate. Qualcuno gliele ha afferrate, tirandole con violenza e convinzione dalla propria parte e lui non è stato in grado di trattenerle, semplicemente.

"E allora forza, usatele pure queste armi, usatele contro di me, fatemi a pezzetti, tritatemi. Che non mi importa più. Che io non sono più e mai sono stato".

Dei passi si fermano davanti alla porta della sua cella. Passi pesanti, che avanzano sotto un fiato ancora più pesante e un tono di voce greve, per nulla socievole.

- Ragazzino, faccia al muro e mani dietro la testa. Ora spalanco la porta e vengo ad ammanettarti.

Scratch - scratch - scratch.

La guardia apre e lo trova nella stessa identica posizione in cui lo ha lasciato ore prima. Raggomitolato e con le gambe tirate al petto, in posizione fetale, la faccia rivolta alla parete, la testa per terra. Solo un dito si muove repentino; l'unghia spezzata dell'indice sinistro continua a grattare sul muro.

Ab Imo PectoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora