Risveglio

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Una mosca batteva sul vetro.

Il ronzio. Fastidioso, penetrante e poi quei colpetti sordi, insistenti e ottusi.

Impensabile quanto rumore possa fare la fragilità di una minuscola esistenza che si infrange contro il muro trasparente del silenzio.

Una mosca.

Fu questo a svegliare Mabel. Non la flebile luce proveniente dal monitor accanto o i suoi bip costanti. Non l'odore di disinfettante e pastina riscaldata. Non l'ago che le infilzava il dorso della mano destra.

I suoni, gli odori, ci raggiungono sempre prima delle immagini. Bussano alle soglie della nostra coscienza e senza attendere risposta si infilano sotto la porta.

Aprì lentamente le palpebre.

La stanza giaceva in penombra o forse il buio era ormai in lei e giaceva dentro una stanza impersonale.

"Che pensiero buffo...", se fosse stata una mattina normale, magari ne avrebbe sorriso.

"Mattina... Ma che ore sono?", avvertì subito una sensazione straniante.

Si sforzò di riprendere contatto col proprio corpo e fu allora che capì cosa le stonava di quella situazione. Lei non era lì. I suoi occhi forse, le sue mani, il suo respiro flebile quasi timoroso, erano lì. Lei no. Lei non c'era. Non più. Spostò un piede, mosse un braccio. Vide il suo corpo muoversi ma ormai apparteneva a qualcun altro. Che giurisdizione avrebbe mai potuto avere su un corpo non suo? A cosa le sarebbe servito?

Un corpo è una forma. Uno scrigno. Una testimonianza. Quel suo corpo testimoniava qualcosa che con tutta se stessa avrebbe voluto rigettare. Ma ciò che la mente è in grado di celare negli angoli bui delle sue stanze polverose, il corpo lo assorbe e come l'acqua lo trattiene, plasmandosi a sua volta.

Dicono che il corpo abbia una memoria tutta sua. Ma Mabel non ricordò. L'atto di riportare qualcosa alla memoria presuppone che quanto rimembriamo sia ormai passato, lontano. Lei sentì. Ancora e ancora e ancora. Ogni fibra del suo essere, quell'involucro che sembrava non essere più di sua proprietà, sentì tutto, di nuovo.

Avrebbe voluto gridare, ma a che scopo? Avrebbe voluto parlare, ma a chi? Chi avrebbe saputo ascoltare ciò che non sarebbe mai stata in grado di dire espressamente? Avrebbe voluto piangere, ma per cosa? Per la dignità calpestata? Per se stessa? Per Dennis?

Pensare il suo nome aprì una voragine dentro di lei che implose quando tentò di sussurrarlo. Capì in quel momento che l'unica cosa che davvero avrebbe voluto sarebbe stata vederlo lì, davanti a lei.

Sentì la gola secca. Percepì un movimento nell'ombra ma non riuscì a mettere a fuoco la figura che lentamente avanzava. Quando sentì il tocco di una mano, posata sul suo polso, iniziò ad agitarsi spasmodicamente. Guardava ma non vedeva. Dentro la sua testa il loop infinito di un orrore reiterato.

Mabel avvertì delle voci attorno, ma non seppe dare loro un nome né una faccia. L'unica cosa che riuscì a percepire distintamente al di sopra dell'informe vociare fu il ronzio. Fastidioso, penetrante e poi quei colpetti sordi, insistenti e ottusi.

Una mosca batteva sul vetro.

– Fatela uscire, fate uscire quella dannata mosca! – le sembrò di pensarlo ma lo gridò.

Per un attimo ci fu silenzio. I presenti si guardarono tra loro e ai loro cuori in pena si aggiunsero le espressioni incredule dei loro volti.

– Mabel, tesoro, calmati...Sei al sicuro ora..., – Jenny tentò di rassicurarla, parlandole dolcemente, ma nella sua testa sentì i colpi contro il vetro farsi sempre più ravvicinati, più persistenti.

Ab Imo PectoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora