Cose preziose

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Chi aveva fatto quell'abominio doveva pagare.

Erano anni che meditava vendetta. No, non vendetta, giustizia. Era stato costretto ad affiancare una parola così dolce e raffinata come "Mabel", all'offesa peggiore per una donna. E Mabel era la donna perfetta, l'emblema di ogni suo desiderio, reliquia sacra sul piedistallo della sua devozione totale. Anche le labbra godevano nel pronunciare quel nome soave e si baciavano tra loro nel comporre la prima sillaba "Ma"; si allontanavano un istante prima di ricongiungersi ancora, come amanti mai paghi di effusioni, costretti a staccarsi per riprendere fiato "be";  infine la "l", che imponeva sul palato una carezza gentile e languida, un tocco umido che durasse quel tanto da stuzzicare l'immaginazione della sua lingua, da sempre pronta ad abbandonarsi ad altri luoghi, eppure non abbastanza, per esaurirsi lì, nella sua bocca.

"Mabel".

Ripeteva quel nome e quel nome da epiteto diveniva suono, mutava in melodia, si scioglieva nei sensi; era sapore, gusto e nutrimento.

Era stato costretto a compiere quello scempio affinché potesse risvegliarsi dal torpore morale nel quale era caduta, ma condivideva la sua colpa. Avrebbe dovuto vegliare su di lei, come lei aveva vegliato su di lui tempo fa. Come aveva potuto permettere che un tale squallore la sfiorasse? Sfiorare... Iniziò a scuotere la testa come se il gesto stesso potesse evitare che ciò accadesse.

Ora che il più lurido degli infami la stava cercando, sarebbe stato suo compito proteggerla.

 E se fosse già successo? Se delle mani immonde l'avessero già toccata, palpata, afferrata? Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene e la mandibola serrarsi fino a far scricchiolare i denti. Si sentiva inutile e sciocco. Poteva davvero ritenersi degno del suo amore se in questi anni non era stato capace di tutelarla dalla bassezza morale del mondo? Con quale coraggio si sarebbe presentato al suo cospetto?

No, non doveva cedere alla disperazione del momento. Le sue ansie lo portavano a lanciarsi in inutili congetture. La sua preoccupazione era infondata. Mabel non avrebbe mai permesso alla feccia di avvicinarsi al suo corpo o al suo cuore puro. Si costrinse a calmarsi, distogliendo lo sguardo da quella scritta color rosso vivo; trasse dei respiri profondi. Respirare. Gli era da sempre sembrato così difficile. Fin da bambino gli capitava di concentrarsi su un pensiero con tale forza che ogni sua molecola, immersa in strampalate elucubrazioni, sembrava dimenticarsi di rifornirsi d'aria. Il ritmo del suo inspirare-espirare non era mai regolare. O finiva per diventare troppo sincopato facendogli incamerare più ossigeno di quanto avesse bisogno, oppure si bloccava. C'erano volte in cui lo coglieva un terrore agghiacciante, senza un apparente motivo, che lo portava a bloccare ogni fibra del corpo, diaframma compreso. Crescendo, quel modo di respirare era divenuto la metafora perfetta del suo stare al mondo; da una parte lo slancio famelico dell'afferrare la vita, a piene mani, per riempirsene i polmoni e la testa fino a non poterne più; dall'altra le fissazioni, la paranoia ciclica e la paura che lo immobilizzavano, portandolo a dissociarsi da tutto e tutti.

Tutti, tranne Mabel.

Si sentiva profondamente colpevole per non aver impedito agli eventi di separarli. Eppure, dopo tutti quegli anni di lontananza, aveva ora un'occasione per redimersi. Era una promessa che faceva a Mabel, ma anche a se stesso. Lei era sua e nessuno doveva permettersi di screditarla o ferirla. 

Nemmeno Samael. Soprattutto Samael. Lo vedeva, affannarsi per mettersi in mostra agli occhi di lei, inconsapevole di essere osservato. Lo vedeva muoversi superbo tra quella gentaglia, come se con ogni sguardo e ogni gesto dovesse rimarcare la sua diversa posizione in una gerarchia immaginaria, costruita sulla violenza, sulla sopraffazione e sull'inganno. Ma lui lo vedeva davvero e vedeva al di là di quella corazza. Sapeva meglio di tutti ciò che aveva fatto, l'orrenda verità dalla quale Sam costantemente fuggiva. La colpa atavica che tentava di ricacciare dentro di sé come un rigurgito, ogni volta che riemergeva dall'abisso della coscienza a chiedergli il conto.

Questa era l'ora della verità.

Quei pensieri avevano agito su di lui come un balsamo calmante. Adesso si sentiva pronto. Avanzò costringendosi a non voltarsi verso la scritta rossa e con passi spediti  si avvicinò alla macchina di Mabel. Non si preoccupò nemmeno di guardarsi attorno. In girò c'era poca gente e gli sporadici passanti si fermavano tutti a osservare la parete dell'edificio accanto alla caffetteria, convogliando le loro attenzioni nella direzione opposta alla sua. Pescò dalla tasca una scatolina in PVC, di quelle che a volte si usano per le bomboniere e la posò delicatamente sul cofano dell'auto, in prossimità del posto del guidatore. Fece un passo indietro e sostò un secondo contemplando l'opera. Una petunia nera coi petali di velluto, racchiusa in un sarcofago trasparente, sembrava osservarlo di rimando. Un piccolo presente che si sarebbe portato dietro un mondo di ricordi. Non sarebbe rimasta indifferente, ne era certo perché lei sapeva di averlo aspettato tutti questi anni.

Di lì a poco, Mabel avrebbe saputo che in realtà non se n'era mai andato.

"Angels with silver wingsShouldn't know sufferingI wish I could take the pain for you

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"Angels with silver wings
Shouldn't know suffering
I wish I could take the pain for you..."

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