Doppelganger

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La penombra in cui l'interno del Joyce rimaneva avvolto, rendeva più pesante il silenzio, tipico dei luoghi abbandonati. Quella sala, ora deserta, portava sopra di sé un denso senso di malinconia, come una vecchia signora porterebbe sulle spalle uno scialle, ricevuto in dono durante la giovinezza. Aveva il sapore di tutto ciò che è perduto. Tutti i passi, che negli anni si erano susseguiti, su quelle tavole di legno malconce, indicavano il peso di un'umanità ruvida, provata, eterogenea, ma condotta lì da un unico desiderio, alleggerirsi l'anima. Il lieve sentore di alcol, forse frutto di un condizionamento psicologico legato ai ricordi, aleggiava ancora nell'aria; perfino il dolore, la frustrazione, la rabbia, il disprezzo e tutte le emozioni più comuni che si possano provare, sembravano ristagnare tra i tavoli e il bancone. Le bottiglie, disposte in file ordinate, come soldatini sempre pronti a entrare in azione, prendevano polvere. I panni verdi dei tavoli da biliardo, macchiati da sostanze appiccicose di varia natura, stonavano con l'atmosfera tetra che ricopriva il resto degli oggetti. Soprattutto, stonavano col puzzo umido di fiori marci.

– Mabel, apri gli occhi.

Una voce familiare la raggiunse. La testa le scoppiava, i brividi di freddo non la aiutavano.

– Do-dove siamo?

– Esattamente dove dovremmo essere. Questo è il nostro limbo personale, ancora per poco.

Avvertì un fruscio alla sua destra e lentamente girò la testa. Aveva capito subito di essere impossibilitata a muoversi, anche se i suoi occhi pretesero del tempo per abituarsi a distinguere le ombre che la contornavano. Un odore acre e pungente la colpì in pieno, sembrò infilarsi a forza nelle sue narici e per un attimo le parve di essere costretta a mangiarlo. Represse il conato che le strizzò la bocca dello stomaco e si concentrò sull'ambiente circostante. Lo vide. Dennis era lì. Per terra. Con la testa grondante sangue. Le manette ai polsi e le braccia assicurate alla gamba di un tavolo, uno di quelli grandi, centrali. Difficile capire se respirasse ancora.

– Mia dolce Mabel, non ti dona quell'espressione impaurita. Non devi aver paura quando sei con me, – il tono melenso con cui la voce prese a parlare, la ripugnò ancora di più, – sai che io qui sono la Legge. Nessuno può opporsi alla...

– Io so chi sei, – asserì, intercettandolo nell'angolo in fondo e interrompendolo bruscamente, – so. Ricordo tutto adesso.

La voce uscì dall'ombra e le si fece vicina. Lasciava tracce di liquido scuro muovendosi. Nella mano stringeva ancora la pistola.

– Meglio così. Sarà più facile per tutti, – le sembrò che indicasse Dennis con un cenno della testa.

– Perché ci hai portati qui? – chiese, cercando di ignorare il riaffacciarsi di una speranza. In fondo, se avesse voluto ucciderli, avrebbe potuto farlo nel parcheggio dell'ospedale.

– Per confessare i vostri peccati. Ma prima, – prese una bottiglia di Jack Daniels allungandosi sul bancone del bar ed emettendo un gemito, – dobbiamo svegliarlo.

Era ancora vivo. Adesso ne era certa. E, perfino in quella situazione, si sentì grata che respirasse ancora. Dennis aprì gli occhi tossendo. Un fiotto di whiskey gli colava dalla testa, scorreva sui tagli e sul sangue rappreso, bruciando da matti. Gli sembrò di soffocare. Si girò su un fianco e sputò più volte prima di riuscire a trarre un respiro profondo.

– Adesso, – parlò, premendo con una mano sul fianco insanguinato e con l'altra puntando l'arma contro la testa del ragazzo, – confessa, Mabel.

Chiuse gli occhi. Il buio la avvolse e in quell'oblio rassicurante, ascoltò il suo cuore. Pompava sangue e la teneva in vita. Solo questo? No. Condivideva con lei un segreto. Chiedere perdono non sarebbe servito, poiché mai avrebbe potuto perdonarsi. Rifletté però; parlare le avrebbe regalato del tempo. Minuti preziosi prima del verdetto che, ne era certa, sarebbe calato su di loro come una scure affilata. Dunque, iniziò:

Ab Imo PectoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora