Fantasma

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Odore di disinfettante, di pastina riscaldata, puzzo di malattia e di lattice di guanti monouso; il naso di Libertad si era ormai abituato. Non aveva una casa da troppo tempo. I mesi in cui aveva vissuto, stipata nel retro di un furgone, con la certezza di una condanna senza possibilità di appello, le erano sembrati anni. I giorni trascorsi a vagare per l'ospedale o rintanata nel sottoscala fuori dall'orario delle visite, le pesavano più o meno come una manciata di ore.

Avrebbe potuto fuggire, allontanarsi indisturbata e cercare altrove un nuovo futuro. Nell'assurdità della situazione, era stata fortunata. Forse, più fortunata delle sue compagne di viaggio, delle quali non aveva avuto notizie dall'ultima apparizione in televisione. Nella sala d'attesa il monitor aveva fatto scorrere qualche immagine del Joyce e del camion, ormai vuoto, prima di incorniciare la sede della polizia locale. Erano seguiti flash con inquadrature a tutto schermo delle superstiti e lunghe interviste personali alle cariche di maggior spicco, che sorridevano accanto a quelle vite spezzate.

Libertad non aveva compreso appieno cosa dicessero le voci che commentavano quel melenso spettacolo, ma aveva assaggiato abbastanza realtà, per sapere che delle vittime mai a nessuno sarebbe realmente importato; erano utili all'evenienza, per ergersi a difensori della giustizia e per guadagnare ascolti, attraverso una barbarica pratica di spettacolarizzazione del dolore, per poi, spenti i riflettori, essere confinate nel dimenticatoio.

Chi aveva condiviso con lei quell'orrore, anche se per pochi istanti, era stato visibile al sistema e stava ora al sistema decidere se aprire finalmente gli occhi o tornare a girarsi dall'altra parte. Libertad invece continuava a non esistere. Un fantasma. Si aggirava per l'ospedale come quegli spiriti che, dopo la morte, rimangono legati ai luoghi di appartenenza.

A Libertad non dispiaceva affatto l'idea di camminare come se i piedi non facessero rumore, di muoversi come se il corpo non spostasse l'aria attorno, di guardare il mondo senza essere percepita, senza sentire addosso la minaccia costante di poter diventare un bersaglio. Non ci si può scagliare contro ciò che non si vede e questa invisibilità le restituiva un senso di protezione. Era il motivo per cui si rifiutava di lasciare l'ospedale o almeno, era ciò che si raccontava.

Quello che preferiva tacere, sarebbe stato complicato spiegarlo, poiché si trattava di un qualcosa che non comprendeva del tutto. Un legame.

Si può definire tale se ci àncora a quanto di doloroso persiste nella memoria, con il solo e unico intento di ricordarci di prenderne le distanze? L'ambivalenza del sentimento che provava nei confronti di Samael, agiva su di lei come un elastico emotivo. Tirava ogni notte e la induceva ad accorciare le distanze, per poi spingerla di nuovo ad allontanarsi, quando avvertiva come soffocante lo spazio ristretto entro il quale operava la sua volontà. Nel volto di Sam scorgeva la testimonianza diretta delle sue catene spezzate eppure, colpita dalla sindrome dell'arto fantasma, continuava a sentirne tuttora il peso. Era libera, sì, ma le sarebbe servito del tempo prima che fosse stata in grado di capire cosa significasse realmente.

Sapere di aver salvato la vita a qualcuno, della stessa persona indirettamente responsabile della sua liberazione, la esaltava e le impediva di lasciare l'ospedale a cuor leggero. Che ci fosse un attaccamento a Samael era innegabile, ma celava al contempo un desiderio egoistico di compensazione. La riceveva ogni volta che gli posava la mano sul petto, sopra la ferita, per ricordare ogni minimo dettaglio di quella notte. L'adrenalina mischiata alla paura, la rabbia disciolta nell'eccitazione, la sensazione di avere finalmente il controllo su qualcosa e su qualcuno. La faceva sentire viva, per qualche minuto. Prima di tornare a percepire se stessa come uno spettro o come la proiezione di una Libertad in divenire, non ancora nata del tutto.

Quello di non avere un altro posto sicuro in cui stare, si aggiungeva poi come deterrente per rimanere lì più tempo possibile.

Era stato semplice rubare una tuta dalla stanza di un'anziana ricoverata, così come lo era sottrarre quotidianamente qualcosa dai vassoi, che gli infermieri distribuivano più volte al giorno. I malati non avevano quasi mai appetito e Libertad aveva imparato a sopravvivere con poco. L'unica cosa che le aveva messo addosso una strana sensazione, era stato l'incontro con una paziente, avvenuto qualche ora prima. Come di consueto, aveva atteso che terminasse l'orario delle visite per avventurarsi a caccia di una mela o di oggetti lasciati incustoditi. Aveva affinato il suo fiuto come una volpe costretta a spingersi fuori dai confini del bosco. Spostandosi tra i reparti rasente i muri, aguzzava le orecchie per rintracciare il minimo cigolio, quello prodotto dalle ruote dei carrelli trainati dalle infermiere o il minimo fruscio, quello dei camici dei dottori, che si attardavano per ricontrollare qualche prescrizione. Era ormai in grado di riconoscere i membri del personale ospedaliero dal modo in cui trascinavano i piedi lungo i reparti. Non si soffermava mai più del dovuto; individuava, prendeva e tornava. Prima di rintanarsi nel suo nascondiglio, passava davanti la stanza di Samael.

Ab Imo PectoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora