CAPITOLO 8-CHLOE

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Sentii lo scricchiolio della porta aprirsi e subito mi rifugiai sotto quelle fredde lenzuola, incapaci di riscaldarmi. Sentivo dei passi farsi sempre più vicini e la paura aumentare ad ogni cigolio, procurato da quelle scarpe, che battevano nel legno del pavimento deteriorato. Quello significava che non avevo scampo; sapevo che erano venuti a spaventarmi un'altra volta.

Presi un grosso respiro e mi preparai al peggio.

«Aleex. Alex dove ti sei nascosto? Vieni fuori. Dai su, non ti facciamo mica del male...»

Sentii la voce di Aaron chiamarmi e gli altri ridere alle sue spalle. Io stringevo forte le ginocchia al petto, nella speranza che, almeno quella volta, me la sarei risparmiata. E invece non fu così. In un baleno alzarono le coperte e mi trascinarono fuori con la forza, io che piangevo e loro che mi deridevano.

«Sei una femminuccia, non hai un minimo di coraggio, piccolo Alex» mi disse tirandomi i capelli, chiamandomi con quello che ormai era diventato il mio soprannome, con cui non perdevano occasione per prendermi in giro.

«Per favore, lasciatemi stare» gridai.

«Altrimenti cosa succede?» Aaron agguantò con una mano il mio viso e me lo strinse «Ti conviene stare zitto e buono, senza opporti piccoletto».

A quel punto iniziarono a sferrarmi pugni e calci in ogni parte del corpo e io non potei far altro che accoglierli, contorcendomi dal dolore, incapace di difendermi con la corporatura esile di un bambino di dieci anni quale ero. Quando ne ebbero abbastanza mi lasciarono lì, a terra, in un angolino della stanza, rannicchiato e privo di forze, con quella domanda che, puntualmente, si presentava nella mia mente: Perché? Perché nessuno faceva niente per venirmi a salvare?

Nessuno, nessuno, nessuno....

«Nessuno» mi svegliai di colpo con quella parola tra le labbra. Ero madido di sudore con il cuore che batteva troppo veloce. Mi guardai intorno e quando capii che ero al sicuro, il battito ritornò regolare. Un altro dei miei soliti incubi era tornato e ogni volta quella sensazione di disagio riappariva, pronta ad attanagliarmi le viscere. In quegli anni avevo provato a cacciarli via e ci ero riuscito, ma da qualche tempo erano ricominciati di nuovo, più forti di prima. Mi sentivo soffocare. E io ci provavo a dimenticare ogni singolo giorno. Ma come potevo andare oltre, se dentro tenevo tanta di quella rabbia e odio per quei bastardi, che avevano reso parte della mia vita un inferno? Ero un incapace che non ce la faceva a liberarsi di quel fottuto passato e, forse, dovevo solo iniziare a conviverci e accettare che non se ne sarebbe mai andato.

Non riuscendo più a chiudere occhio, scesi giù dal letto e andai a farmi una doccia, cancellando con forza quel terrore che mi attraversava quando facevo uno di quegli incubi che, alla fine, potevano considerarsi la triste e dura realtà a cui avevo dovuto far fronte.

***

Arrivai in casa editrice ed, entrare, davanti a me, vidi lei. La nuova causa dei miei tanti pensieri. Improvvisamente, il mio cattivo umore di quella mattina passò in secondo piano alla vista di lei bellissima, con quei lunghi capelli che, ondulati, le cadevano sulle spalle. Indossava un maglione bianco e una gonna di jeans che disegnava tutte le sue forme e io non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Mi ero ripromesso di smetterla. Ma appena me la ritrovavo davanti, tutti i miei buoni propositi andavano a farsi fottere perché quando era vicino a me, non ci stavo con la testa. Non ci capivo più un cazzo!

«Buongiorno, Peterson» assunsi la mia solita freddezza. In realtà avrei tanto voluto chiamarla per nome, ma dovevo rimanere professionale e non andare oltre quel tratto che distingueva il lavoro dalla vita privata.

La stella più luminosa sei tuDove le storie prendono vita. Scoprilo ora