CAPITOLO 22-ALEX

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Era il giorno del mio sedicesimo compleanno, ma non c'era nulla da festeggiare. Quella mattina, la neve non si concedeva un attimo di tregua, scendeva giù imperterrita e il freddo si sentiva più degli altri giorni. Nonostante indossassi un enorme giubbotto, un po' malandato, il gelo mi attraversava in tutto il corpo; forse, perché quel gelo in me risiedeva sempre.

Presi l'autobus per andare a scuola e quando arrivai, andai dritto verso il mio armadietto per prendere i libri che mi sarebbero serviti durante le lezioni, ma, non appena fui lì davanti, ciò che vidi scritto sopra la vernice blu, mi paralizzò.

Fai schifo.

Sei una femminuccia.

Quelle parole scritte in rosso, vorticavano nella mia mente, pronte a colpirmi come tanti piccoli chiodi appuntiti.

Accanto a me, girandomi, ritrovai sorridenti gli artefici del mio inferno. Dell'inferno di cui facevo parte da quando avevo messo piede in quel maledetto orfanotrofio.

«Femminuccia, non hai ancora capito che questo posto non fa per te?» mi schernì Aaron, sorridendo beffardamente.

«Sei solo uno sfigato» disse uno di loro, unendosi alle risate di tutti gli altri che invece di difendermi si godevano lo spettacolo. Attorno a me si creò all'istante un cerchio. Io ero al centro mentre tutti gli altri che mi circondavano, ridendo, ripetevano tutti insieme: «Femminuccia. Femminuccia. Femminuccia».

All'improvviso, non riconobbi più i loro visi, al loro posto, vidi invece delle maschere e su di esse il demone che abitava in me. Erano diventati dei mostri e quella parola, che non smettevano di ripetere, si insinuò nella mia mente, colpendo forte il cervello che sentivo pulsare ad ogni "Fai schifo".

«Queste parole ti si addicono, piccolo Alex. Rappresentano ciò che sei: niente» aggiunse Anderson. E io che, per trattenermi, stavo tenendo le mani strette a pugno, con le unghie conficcate nella pelle, sulla quale qualche ferita si formò, rilasciando del sangue, nel giro di un secondo, esplosi e tutte le loro voci con il mio ringhio rabbioso, diventarono briciole da calpestare. Esplosi perché ero stanco e non avevo voglia di accogliere ancora e ancora quei giudizi; quella fu la prima volta che reagii.

Con tutta la forza che mai avevo mostrato di avere, iniziai a sferrare un pugno, poi due, poi tre, fino a che non lasciai quel bastardo di Aaron lì a terra, con il viso cosparso di sangue. E poi fuggii via, iniziando a correre veloce, lontano da quello schifo. Lontano da tutti. Lontano da chi nella vita mi aveva fatto sentire sempre sbagliato, lontano dagli schiaffi, dalle prese in giro, dai pregiudizi.

Lontano da tutto.

Dopo un'ora di vagare senza una meta precisa, mi ritrovai in un vicolo isolato di Brixton e lì, privo di forze, caddi a terra, iniziando a piangere fino a svuotarmi di tutto quel dolore che cresceva dentro me, per poi gridare un esasperato: «Basta».

Basta... perché io di quella vita non ne potevo più.


«Alex, svegliati» improvvisamente, il me che piangeva sentì una voce, soave e delicata, che interruppe il mio sonno tormentato. Una voce che avrei riconosciuto tra mille e che, adesso, suonava anche un po' allarmata. Probabilmente, perché in quel momento ero incapace di ritornare in me.

«Alex, apri gli occhi» ripeté un'altra volta, muovendo il mio braccio, con la sua esile mano, e, questa volta, feci come mi disse, scoprendo dalla fioca luce che entrava dalla finestra, essere le prime ore dell'alba.

«Cosa è successo?» chiesi con la fronte impelata di sudore.

«Eri agitato e gridavi in continuazione basta. Mi hai fatto preoccupare» mi spiegò turbata.

La stella più luminosa sei tuDove le storie prendono vita. Scoprilo ora