Cenere.

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3.49 del mattino, casa Wheeler.
Buio.
Silenzio ovunque.

Mike respirava lentamente.
Le sue pallide palpebre erano coperte per metà da un ciuffo nero. Persino le sue lentiggini, spruzzate lievemente sul viso assopito, sembravano riposare. Stava sognando, sorrideva. Non russava, non era una sua abitudine, ma ogni tanto mugugnava qualche suono confuso. Forse pensava a Will, o forse a quando sarebbe diventato un famoso scrittore. Era pacifico, come un bambino che non conosce la crudeltà del mondo.
Pacifico, come un ragazzo che non era cosciente della creatura a sangue nero che lo guardava dormire.

Un'ombra si stagliava su di lui.
Quel mostro non era Will, ma ci assomigliava, fatta eccezione per un particolare: i suoi occhi erano completamente scuri. Nessuna sclera, nessuna differenza di tono tra iride e pupilla. Persino i filamenti di sangue che sarebbero dovuti scorrere sulla sua superficie erano annegati nell'oscurità.

Il senso che ci permette di comprendere se siamo osservati non dorme mai, per questo a volte ci svegliamo nel mezzo della notte. È esattamente ciò che successe quella notte.

Mike aprì gli occhi lentamente. Ciò che vide consistette all'inizio in un po' di buio a macchie, luci disconnesse, l'ombra delle ciglia che calava dall'alto della sua visione, flash casuali e sfocati. Aveva ancora del muco sugli occhi, e se lo staccò con i mozziconi di unghie che si ritrovava, infastidito. Ma appena tolte le mani dalle sue palpebre, prese coscienza di chi aveva davanti.

"Will" teneva un pugnale in mano, e lo stava brandendo verso Mike. Il corvino era paralizzato, in preda alla paura. Avrebbe voluto urlare, ma insieme al suo buonsenso e alla sua razionalità, anche la voce lo aveva abbandonato. Will calò l'arma su di lui con mano tremolante e gesti a scatti. In un attimo che parve infinito, procedette verso di lui, e subito dopo si ritrasse. Spasmava avanti ed indietro senza sapere cosa fare.
Sembrava non indeciso, quanto combattuto. Era evidente che una parte di lui voleva ucciderlo, e un'altra stava facendo del suo meglio per fermarlo.

Poi, d'un tratto, saltò giù dalla finestra aperta. E Mike lo vide correre, alla luce della luna calante, verso un destino ignoto.

Trasse un lungo respiro.
Subito, il suo primo istinto fu di chiamare Will. Mike non era un luminare della logica, ma aveva subito notato gli occhi neri della creatura: avrebbe riconosciuto il suo amato ovunque. Quei vortici di oscurità non erano comparabili agli occhi nocciola di Will, che risplendevano quasi fossero piccoli astri e possedessero una luce propria.

Voci, voci elettroniche al walkie talkie. Respira. Interferenza, sei qui Mike? Vai a dormire.
E poi, di nuovo, solo buio.

Il 13 Febbraio di quell'anno fu un Mercoledì. Il sole si fece vedere alle 7.11, mentre grandiosi uomini giocavano a calcio in Italia, alcuni ragazzi americani ascoltavano Careless Whisper pensando alle ex fidanzate (ma i paninari segretamente preferivano ballare sulle note degli Wham) e di certo in quel preciso momento qualcuno stava nascendo.

Nella classe di Mike e Will erano stranamente tutti presenti. Tutti, tranne loro due. Per loro concentrarsi sarebbe stato come scalare l'Everest mentre qualcuno gli lancia sassi dal K2, dunque scelsero unanimamente di marinare la scuola e vedersi quella mattina stessa a casa Wheeler. Ovviamente nessuno era a conoscenza di questa decisione, e i loro genitori non sarebbero mai stato d'accordo, senza sapere le loro ragioni. A Will era bastato fingere di imboccare la strada verso la scuola, e svoltare dietro all'albero opposto una volta raggiunto il punto giusto. Avevano troppo di cui parlare.

La notte precedente, Mike aveva chiamato Will tra respiri affannosi e parole in disordine.

Quell'incontro del Mercoledì aveva un obbiettivo ben preciso: i due dovevano tuffarsi nelle profondità di Will per capire da dove venisse il sentimento che avesse portato il suo clone a tentare di uccidere Mike. O meglio, Mike doveva capirlo, perché Will, dentro di sé, lo sapeva già.

Pastelli. ~BylerDove le storie prendono vita. Scoprilo ora