Capitolo 10: Il prossimo - ✓

80 13 4
                                    

Non avrebbe mai creduto che un giorno sarebbe arrivato ad amare una simile città caotica.
La Casa Bianca era la costruzione che più lo aveva emozionato; l'effervescenza che si celava dietro quelle mura avrebbe voluto assaporarsela con la propria pelle, ma ciò sarebbe arrivato in seguito. Un passo alla volta; ogni tappa che stava compiendo lo stava portando sempre più vicino al suo obiettivo. Agire all'interno e all'esterno dei confini era una passeggiata; era stato facile usare il Messico come porta d'ingresso e d'uscita per poi mimetizzarsi nell'andirivieni americano. La polizia faceva molti controlli, non lo mise in dubbio, eppure superati questi era elementare fare finta di non essersene mai andati dalla propria patria. A bordo di una lussuosa vettura nera, il suo autista personale parcheggiò di fronte ad un delizioso locale; un hotel a cinque stelle alto circa venticinque piani. 

Con una valigia in mano, scese dalla vettura quando la guardia all'entrata dell'edificio gli aprì la portiera; si aggiustò la cravatta, sfoggiando un completo con tutto rispetto – giacca e pantalone blu notte e camicia bianca, camminando con un paio di scarpe nere, lucide e immacolate. Scoccò un'occhiata all'orologio al polso, notando di essere perfettamente in orario per l'appuntamento. Venne scortato sino all'ascensore che lo avrebbe portato all'attico, dove vi era uno dei migliori ristoranti di tutta Washington, dotato di uno spazio privato per ospiti ragguardevoli ed importanti come lui. Non era una giornata piena di clienti, tuttavia; alla reception aveva intravisto molte chiavi appese sul mobile in legno oltre il bancone. Se ne avesse avuto l'opportunità, avrebbe potuto trasformare il lavoro in una vacanza, ma in lui non albergavano pensieri tanto oziosi e perversi. 

Non era così che gli era stato insegnato, seppur ci fosse abituato; i visi umani dovevano essere cancellati seduta stante. 

Stringendo il manico della valigia, fissò il display cambiare di volta in volta ad ogni piano superato; picchiettava il dito guantato con impazienza, bramando quell'incontro con tutto sé stesso. Era un passo in avanti che non si sarebbe mai aspettato di ottenere in così poco tempo, ne era pienamente soddisfatto. Ma non era ancora abbastanza; l'impegno doveva essere triplicato.

Tanto non pativa la stanchezza né il senso di arresa.

Il piccolo suono annunciò l'arrivo all'attico. Le porte di aprirono e lui proseguì lungo un sentiero delineato da faretti luminosi, di un colore simile all'acquamarina. Avevano costruito un giardino là sopra; una fontana attraversava l'intero attico con un torrente popolato da pesciolini dalle tinte variopinte; il rumore dell'acqua, accostato alla musica da lounge, rendeva il tutto pressoché completo.

Altre due guardie se ne stavano puntellate come statue di marmo ai lati di un separé, il quale gli impediva di guardare chi vi fosse al di là di esso; bambù, con tessuto bianco. Queste chinarono il capo per accoglierlo; la più vicina afferrò il separé con il guanto bianco, aprendolo appena affinché ci passasse solamente lui. 

Un uomo, biondo e vestito non secondo i canoni di quel luogo – indossava una felpa marrone, dal cappuccio sollevato, pantaloni cargo neri e anfibi del medesimo colore –, se ne stava seduto all'unico tavolo al centro di quell'arredamento esotico, mani intrecciate davanti alla bocca e sguardo circospetto, come se non avesse voluto essere riconosciuto da qualcuno.

Quando il suo sguardo si posò sul nuovo arrivato, tuttavia, Barney Gonzales raddrizzò la schiena, mettendosi sull'attenti quasi immediatamente; fece per alzarsi, ma la mano dell'uomo lo invitò a non scomodarsi.

«¿Has traído el qué-?» incominciò impaziente Barney.

«¿Te dije que podías hablar?» l'uomo, sedutesi dall'altro lato, lo interruppe con uno spagnolo perfetto, il tono flemmatico.

Gonzales rimase con la bocca aperta, dalla quale non uscì alcun suono; si limitò ad inspirare, trattenendo il fiato per non ribattere. Non poteva farci nulla se voleva andare dritto al dunque. Cercava certezze, voleva andarsene subito da Washington; aveva compiuto quello per cui era stato chiamato, quindi non aveva più nulla da condividere con questa città. Se avesse saputo dagli albori che quei due gemelli da quattro soldi erano stati delle figure talmente rilevanti da smuovere istantaneamente le indagini che riportassero al loro assassino, allora avrebbe rifiutato seduta stante un simile incarico. Purtuttavia non aveva fallito, perciò doveva ricevere ciò che gli spettava. Non a caso era stato un sicario del Governo panamense; la sua prigionia era stata il frutto di un errore commesso dal Ministro Reyes, non da lui. Gli avevano voltato le spalle, lo avevano abbandonato in una merda di prigione panamense a pagare per i crimini che loro avevano compiuto per mezzo delle sue mani. E chi avrebbero ascoltato, i cittadini di un territorio altalenante? Un assassino o il loro Presidente? Una domanda che si rispondeva da sola.

MIND OF GLASS: OPERATION Y [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora