27. Cinque giorni

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Damon's P.O.V

Ero solo, il freddo sembrava diventare sempre più gelido, tagliante, quasi asfissiante da togliermi il fiato.

Continuavo a guardarmi intorno, ma non riuscivo a scorgere nulla di familiare in quel che mi si palesava davanti.

Non riuscivo a capire dove mi trovassi ed era tutto estremamente buio, freddo e malinconico lì. Un oblio di dolore, un buco nero colmo di sofferenze, come se stessi camminando fra i mostri della mia testa. D'un tratto sentii una voce, che non udivo da così tanto tempo da aver dimenticato di conoscerla.

"Non ho tempo per tutti i vostri problemi, ho una famiglia a cui pensare ormai e né tu né lui ne fate parte, siete stati solo un brutto sbaglio che non ho intenzione di prendermi a carico" era la voce di mio padre e il ricordo di quella frase realmente pronunciata da lui dinanzi le lacrime di mia madre, mentre da dietro il divano d'una notte lontana, cercavo di capire cosa si stessero dicendo.

"Non ti sto chiedendo di tornare con me! Voglio solo che tu riservi un po' delle tue attenzioni per Damon...è pur sempre tuo figlio"

"Kevin e Marina sono i miei figli, smettila di cercarmi, smettila di chiamarmi o di provare a mettermi alle strette come hai fatto oggi, devi dimenticarti di me Isabel"

Il vuoto che sentii al centro del petto fu quasi doloroso, come se mi avessero infilato una mano nella carne e strappato via il cuore a crudo.

Questo ero io, uno sbaglio inutile.

Avevo sempre vissuto nel tormento, nelle rovine fino a diventare io stesso una rovina per chi mi sta accanto. Non ero mai stato in grado di mantenere vivo un rapporto con nessuno, dall'amicizia all'amore. Io non ero in grado di coltivare nulla, se non l'odio.

Quante persone ero riuscito a mettermi contro nella mia vita? Tante.
Quasi tutte.

Sobbalzai di scatto.

Il rumore della suoneria del mio cellulare mi fece scattare in piedi in piena notte e solo allora mi resi conto di star sognando, che tutto quel che avevo visto, udito e provato non era niente di più che un incubo estremamente reale.

Afferrai il telefono, con gli occhi ancora accecati dal sonno e di sfuggita vidi che l'orario segnava le due e quarantacinque del mattino.

«Pronto?» parlai preoccupato, notando il numero fisso non salvato in rubrica che stava continuando a chiamarmi a quell'ora e una bruttissima sensazione mi pervase ogni particella del corpo.

«Signor Walker, chiamiamo dalla clinica nella quale è ricoverata sua madre, Isabel Mullen» mi informò l'infermiere dall'altra parte del telefono e mi sentii impallidire, vittima di una paura e un'ansia che ormai mi stavano logorando fino alle ossa.

«Che succede?» chiesi uscendo dal letto ancor prima di udire cosa dovevano dirmi, mi precipitai a mettere le scarpe con il telefono attaccato all'orecchio «le condizioni di sua madre sono peggiorate improvvisamente, a causa di un'anemia cronica e improvvisa che le sta prosciugando le forze, avremmo proseguito con una trasfusione immediata ancor prima di avvertirla, se non fosse per la rarità del suo gruppo sanguigno» il cuore mi palpitò così forte da farmi dubitare di non avere un infarto nei prossimi secondi.

Afferrai le chiavi della mia moto e mi precipitai per le scale «cercherò di essere da voi nel minor tempo possibile, le donerò io il sangue di cui ha bisogno» dissi uscendo in giardino. Faceva freddissimo ed io avevano addosso solo una felpa con la quale mi ero messo a letto qualche ora fa, ma non avevo tempo per nulla.

Kimberly Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora