Capitolo 1

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India - 1910

«Ricordo ancora i suoi occhi, quello sguardo che ogni volta mi attraversava l'anima e m'incendiava più di quanto lo avesse mai fatto il corpo di una donna... o il suo stesso corpo.»

Prendo un respiro e cerco di non lasciarmi sopraffare dall'emozione, ma ormai è troppo tardi, troppo a lungo ho trattenuto i miei sentimenti, per troppo tempo ho tenuto per me il ricordo di lei, come se fossi geloso che qualcun altro potesse innamorarsene.

«Ricordo ancora le sue labbra rosse e morbide, le sue mani affusolate che
roteavano decise ma sensuali mentre danzava, il suo corpo che si fondeva con la musica...»

Altro respiro.

«Ricordo i suoi capelli castani che le cascavano sulla schiena in libere onde, così lunghi da sembrare un mare in tempesta quando volteggiava. Quei capelli tra i quali avrei voluto passarci le mani mille volte, ma che ho avuto la sfortuna di avvolgerli tra le mie dita solamente per pochi istanti, giusto il tempo, però, di avvertirne ancora adesso la consistenza morbida.»

Il mio sguardo si perde oltre le alture che scorgo in lontananza e la mia voce continua incessante a parlare di lei.

«Ricordo ancora la prima volta che la incontrai, che udii la sua voce, che la vidi danzare... Ricordo persino com'era vestita: aveva una lunga gonna che le sfiorava i piedi e una camicetta rosa che non le lasciava scoperto un solo lembo di pelle. I capelli erano semi raccolti e il suo viso era candido come la neve. Eppure, era bellissima nella sua semplicità.»

Avverto le mie labbra tendersi in un lieve sorriso al ricordo di quel viso puro, quasi angelico, eppure così mutevole all'occorrenza.

«Se mi avessero detto sin da subito che era lei la ballerina di flamenco più brava di tutta la regione non ci avrei creduto, ma non perché non lo fosse... al contrario, la sua danza era in grado di ipnotizzare chiunque, ma non ci avrei creduto proprio per quel suo essere semplice. La descrivevano come un tornado, come la donna più bella di tutta la città... e nemmeno su questo si sbagliavano; era per me la donna più bella e volubile che avessi mai conosciuto.»

I miei occhi si chiudono e la sua figura mi appare ancora una volta così nitida, quasi come se non fossero passati tutti questi anni, pochi o tanti non saprei definirlo, ma di sicuro un tempo infinito per il mio cuore che non ha mai smesso di battere per lei... per la mia "zingara". L'ho così
soprannominata per il sortilegio in cui sono cascato. Sento ancora i suoi baci bruciare sulle mie labbra.

«Un tempo ero un uomo libero, vagavo per i mari del mondo come una specie di pirata, la mia ciurma era la mia famiglia. Non avevo più né un padre né una madre e mia sorella cadde nelle mani sbagliate: si innamorò a tal punto da rinunciare alla sua virtù per un uomo infido. Quando scoprì di essere incinta, lui l'accusò di essere una sgualdrina, rinnegò di essere lui il padre di quella creatura e l'abbandonò. Mia sorella morì qualche settimana dopo per una forte emorragia causata da una stupida caduta. Seppi, poi, che quel bastardo era tornato e lei aveva sperato fosse lì per lei, per il loro bambino, ma ancora una volta lui la insultò spingendola giù da quelle maledette scale che costarono la vita a lei e a quella creatura innocente.
Cercai quell'essere lurido dappertutto per fargliela pagare, ma troppo tardi appresi che mia sorella era morta a causa sua. Era ripartito imbarcandosi per le coste dell'Africa settentrionale. Non avevo nulla da perdere oramai e m'imbarcai di nascosto insieme ad un gruppo di banditi, convinto che avremmo raggiunto le coste africane. Ben presto, però, mi resi conto che navigavamo senza mai fermarci e pian piano uscii allo scoperto. Ovviamente mi beccarono e mi legarono pensando che fossi una spia, un nemico. Ma quando la rabbia, che mi aveva spinto a mettere a rischio la mia vita, venne fuori, mi slegarono lasciandomi libero seppure sotto controllo.
Col passare dei giorni capirono che non ero un pericolo, anzi, cominciai ad interessarmi ai loro loschi affari: sbarcavamo nei porti meno in vista e
totalmente privi di controlli, per poi andare in giro a commettere furti e ripartire per una nuova "caccia al tesoro", non prima, però, di aver dato libero sfogo ai nostri istinti in squallide locande frequentate da prostitute e ubriaconi. Rimasi con loro per molto tempo ed ero l'unico a portare a bordo quantità di oggetti preziosi che gli altri non riuscivano a racimolare. Fu in quel modo che, furto dopo furto, entrai nelle grazie del capitano, causando ovviamente dissapori in alcuni componenti dell'equipaggio. Ma non mi lasciai sopraffare, ero diventato menefreghista, indifferente a ciò che gli altri pensavano di me, l'avidità prese il sopravvento su tutto tranne che sul vero motivo per cui era cominciata quell'avventura... la vendetta, una sete che non si era mai placata e che un giorno avrei messo in atto raggiungendo le coste africane. Ero convinto che prima o poi avrei trovato il bastardo che aveva ucciso mia sorella.»

Faccio una pausa prendendo un altro respiro. Il Guru sembra impassibile, non attento a quanto gli sto raccontando, ma so che non è così e allora continuo, perché ormai ciò che ho tenuto dentro per troppo tempo sta venendo fuori come un fiume in piena. E spero che alla fine io possa finalmente sentirmi di nuovo libero.

«Mesi dopo, mi resi conto che avevo conquistato un certo rispetto da parte di tutto l'equipaggio, forse perché in fondo non mi ero mai rivelato meschino nei loro confronti, tutto ciò che rubavamo lo dividevamo, ossia, depositavamo i "tesori" in un enorme baule comune e chiunque vi poteva attingere. Quando capirono che il mio vero fine era un altro, i loro animi
cominciarono a calmarsi e quando il capitano morì, preso da un improvviso malore, il comando del vascello passò a me dopo una lunga votazione durata cinque giorni. Ci trovavamo lungo le coste della Malesia quando tutto ciò accadde e nell'immediato presi la decisione di raggiungere le coste nord africane. Nessuno si oppose, benché il loro scopo fosse diverso dal mio. Ma una serie di tempeste ci impedì di proseguire e così finimmo per raggiungere a fatica il Giappone. Vi rimanemmo un bel po', per poi riprendere il viaggio verso l'Atlantico. Attraversammo lo Stretto di Gibilterra non senza qualche difficoltà, sembrava che il destino intralciasse il mio piano. Da lontano intravidi le coste della mia amata terra, la Spagna, lì dove avevo seppellito il mio passato, la mia infanzia, la mia famiglia. Prima di virare verso est, verso la costa africana, ormeggiai nelle placide acque del Mare di Alboràn, a sud di Malaga, dove però non riuscivo a tornare. Dovevo prima portare a compimento la mia vendetta e poi, forse, sarei riuscito a rimettere piede nella mia terra natìa. Ma quella stessa notte successe qualcosa a cui ancora oggi non riesco a dare una spiegazione logica.»

Il Guru questa volta si gira a guardarmi, senza proferire parola mi fa capire di voler sapere. E allora sorrido perché la magia di quella notte, o qualsiasi cosa sia stato, ha stravolto per sempre la mia vita.

«All'alba, quando il sole non ancora era spuntato, dinanzi ai miei occhi non vi era più Malaga. Il vascello era di nuovo al di là dello Stretto, esattamente davanti alla città di Cadice, sulla Costa de la Luz, e nessuno quella notte aveva virato in quella direzione. Un forte tuono, poi, squarciò il cielo sopra di noi, ma stranamente la tempesta era molto lontana. Rimasi fisso ad osservare il cielo per molto tempo mentre nella mia mente rimbombava il nome Luz, ossia il nome di quella costa a pochi chilometri... e il nome di mia sorella. Quasi come se fossi stato costretto da una forza invisibile, lasciai il vascello e, insieme al mio fedele subordinato Gonzalo, toccai terra. Girovagammo per Cadice; cercavo qualcosa ma non sapevo cosa. E poi entrammo nella città di Siviglia... la città dai mille colori... la città del flamenco... la città...»

Lascio di proposito la frase in sospeso, perché mi ci vogliono coraggio e forza per parlare di ciò che accadde da quel momento. Faccio un lungo respiro, molto più profondo di quelli emessi finora, perché la storia che sto per raccontare mi lascerà senza fiato. Non sono, però, sicuro che il Guru voglia sentirla. Il sole sta per tramontare e noi siamo seduti in giardino già da un paio d'ore. Sicuramente sarà stanco e non voglio annoiarlo. Forse ho fatto anche male a raccontargli la prima parte della mia vita. Così continuo a restare in silenzio, sospirando, osservando il monte Vindhya che sembra regalarmi quella pace che non trovo da una vita. E quando credo che ormai è tempo di rientrare, sento la sua voce chiedermi: «E poi?», incitandomi con un lieve cenno del capo a continuare.

Mi rimetto comodo e col cuore che mi martella nel petto mi appresto a ritornare a Siviglia, esattamente al piccolo borgo di Almendra dal profumo intenso sprigionato dagli alberi di mandorlo.

Ritorno dalla mia "zingara".

La zingara dell'AndalusiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora