India, 1910
Apro gli occhi. Un fascio di luce mi acceca. Quando questa notte ho raggiunto la mia cella ho dimenticato di chiudere le imposte. Per la verità riuscivo a vedere, attraverso la finestra, quella bellissima falce di luna che sembrava specchiarsi sulle montagne e mi son perso ad osservarla pensando che magari anche la mia Leonora, in quel momento, stesse guardando l’affacciarsi di quell’astro sulla sua terra. Ed ho immaginato i suoi occhi specchiarvisi dentro, mentre il loro riflesso arrivava fino a me. Mi sono addormentato così, con quella stessa pace che m’infonde il suo ricordo ma che ancora ora cerco disperatamente nel mio cuore tormentato.
Prima di uscire, butto un’occhiata sullo scrittoio dove giace il suo taccuino. Conosco a memoria ogni pagina, ogni parola impressa su di esse. Parole che mi riportano lontano nel tempo, da lei e dal suo amore per me, l’unica cosa che mi tiene ancora in vita.
Fuori l’aria è ancora abbastanza fresca, ma il sol nascente promette una tiepida giornata primaverile. Respiro il profumo degli alberi in fiore e sorrido ripensando al mandorlo nel suo giardino, quello che le faceva ombra quando la vidi la prima volta. Mi siedo proprio ai piedi di un esemplare dai fiori bianchi e chiudo gli occhi, lasciandomi cullare da quell’aria che sa, ancora una volta, di un nuovo inizio, ma non per me.
«Sono pronto!»
Le parole del Guru mi destano senza alcun preavviso. Non l’ho sentito arrivare, né accomodarsi poco distante da me, assumendo la stessa posizione a gambe incrociate del giorno prima.
Gli do il buongiorno che lui ricambia con un sorriso, mentre mi porge una tazza di tè accompagnata da fette di pane. Lo ringrazio e, dopo essermi riscaldato con quella bevanda, riprendo il mio racconto che mi riporta nuovamente in Andalusia a cinque anni fa...
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Durante quella settimana cominciai seriamente a pensare di stabilirmi lì. Quando finalmente lo dissi a Leonora, un’ombra si posò sul suo volto.
«Come faccio? Noi non possiamo…»
«Permettimi di parlare con tua madre» la pregai. «Andrò a Siviglia un paio di giorni, so che stanno cercando uomini per rafforzare la diga crollata con l’inondazione del mese scorso e vogliono costruirne altre lungo il corso del Guadalquivir. Farò di tutto per farmi assumere e cominciare a lavorare. Voglio stabilirmi qui, cominciare una nuova vita e poterti amare alla luce del sole.»
Mi sorrise, poi abbassò lo sguardo e una lacrima cadde al suolo.
«Io ti amo, Leonora!»
Sollevò di nuovo gli occhi nei miei, erano velati di quella malinconia che oramai conoscevo. Mi sorrise mestamente.
«Proverò a parlare prima io con mia madre» esclamò, mentre il mio cuore impazzì di gioia.
***
A Siviglia raggiunsi Gonzalo, era andato via avendo ormai capito che non avrei più intrapreso il viaggio insieme a lui.
«Sei proprio cotto, amico!» rise. «Vorrà dire che ti scriverò ogni volta che farò tappa nelle varie città, così semmai ci ripensi sai dove raggiungermi.»
«Purtroppo il tuo viaggio dovrai continuarlo da solo. Chissà, però, che non avrai anche tu la fortuna di fermarti prima o poi» dissi allusivo, ammiccando, e ricevendo in cambio un plateale gesto della mano che stava ad indicare di non volerne sapere niente.
Mi diressi poi a colloquio col capocantiere che avrebbe diretto i lavori per la costruzione delle dighe. Avrei cominciato a lavorare non appena avessero formato la nuova squadra.
Tornai ad Almendra più felice che mai. Non vedevo l’ora di riabbracciare Leonora e dirle di aver ricevuto l’impiego. Avrei fatto ogni giorno avanti e indietro con la corriera, alzandomi al mattino presto e ritornando la sera per stare anche solo pochi minuti insieme a lei. La prospettiva della mia nuova vita fu, però, spezzata da ciò che stava per accadere.