Capitolo 7

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Tornai alla locanda. Ero soddisfatto… ma soddisfatto di cosa? Per essere riuscito ad avvicinare, seppur faticosamente, la bellissima Flamencita? O per aver scoperto il suo nome contro la sua volontà? Cosa che mi aveva divertito per come era accaduto, sicuramente non si sarebbe mai aspettata che qualcuno urlasse il suo nome servendomelo in maniera così naturale dinanzi ai suoi occhi esterrefatti, più che infastiditi. Ero soddisfatto per aver vinto, dunque, una “scommessa”? Probabile. E non vedevo l’ora di rivelarlo a Gonzalo. Ma mentre facevo colazione pensai che per il momento non gli avrei detto nulla, avrei trovato il modo per avvicinare ancora quella dolce e caparbia creatura e parlarle, poi avrei fatto sì che Gonzalo assistesse di persona alla mia “vittoria” lasciandolo letteralmente a bocca aperta.

«Ah, siete qui, capitano!» esclamò proprio quest’ultimo, accomodandosi al mio tavolo con una tazza di caffè fumante.

«Buongiorno, Gonzalo. Ti ho detto di non...»

«Giusto, giusto… Sebastian. È l’abitudine, per il rispetto che ho per te è difficile darti del tu» disse, chinando la testa.

«Rispettare qualcuno non vuol dire per forza essere formali, no?»

«Hai ragione» rispose sorridendo. «Che programmi hai per oggi?»

«Vorrei andare in città e raggiungere il Guadalquivir. Vieni con me?» gli chiesi, finendo di mangiare la mia fetta di pane con marmellata.

«Certo, se ti fa piacere!»

«Non te l’avrei chiesto, altrimenti.»

«Perfetto! Possiamo vederci in piazza tra una mezz'ora.»

«Perché non partire subito?» chiesi, curioso di sapere cosa avesse da fare in quel frangente.

«Ecco…» Gonzalo si passò una mano sul capo quasi imbarazzato.

Lo osservai.

«C’è una chiesa dall’altro lato della piazza e… vorrei farci un salto» ammise arrossendo.

Sorrisi. Mi sembrava un bambino che chiedeva il permesso a suo padre, benché avessimo pressappoco la stessa età.

Due ore più tardi, ci trovammo affacciati ad un ponte che attraversava un punto del fiume. In lontananza potemmo scorgere le case diroccate sui vari promontori, come fossero tanti piccoli presepi, circondate da alberi e radure che rendevano quel paesaggio una visione quasi favolistica.

Nel pomeriggio m’incamminai da solo di nuovo per le vie del piccolo borgo sivigliano dove alloggiavamo. Era la terza volta che percorrevo quelle stesse stradine e scorsi qualcosa di nuovo che mi era sfuggito in precedenza. Arrivai lì dove la mia mente era proiettata da quella mattina, ma non ebbi la fortuna di risentire il dolce suono di quella voce come era accaduto il giorno prima.
Rimasi a fissare per un po’ il giardino oltre il cancello verniciato di verde, ma poi ritornai sui miei passi. Semmai qualcuno mi avesse visto avrebbe potuto pensare che io potessi essere un malintenzionato. Sorrisi ripensando a quegli occhi color cioccolato che riuscivano, nella loro
imperturbabilità, a trasmettere, comunque, dolcezza.
Un vociare mi distolse da quella visione e mi guardai intorno. Non capivo da dove provenisse. Improvvisamente, da uno dei vicoletti udii qualcuno avanzare e ridere sonoramente. Due figure raggiunsero la via principale svoltando e dandomi le spalle. Non mi videro, ma io riconobbi benissimo una delle due: era lei… rideva e parlava con quel tipo che quella mattina, inconsapevolmente, mi aveva svelato il suo nome.

«Leonora!» pronunciai sommessamente.

Li seguii con discrezione cercando di captare ciò che dicevano. Afferrai solo qualche frase, parole come… «Sono davvero felice in quei momenti. Mi sento gratificata e utile». La vidi gettare il capo all’indietro e ridere ancora per qualche cosa che le aveva detto quel tipo buffo. Se solo non ci fosse stato lui, mi sarei avvicinato, a costo di ricevere ancora indifferenza. Sembrava così diversa da come l’avevo vista fino a quella mattina: un angelo il giorno prima, mentre cantava nel suo giardino… Una donna pregna di passione nel danzare un appassionato flamenco… Una giovane riluttante e testarda, quella mattina… Una bambina in quel momento… Cos’era in realtà? Qual era il suo vero essere? E improvvisamente mi ricordai della malinconia che avevo letto nei suoi occhi quella stessa mattina non appena eravamo giunti a casa sua. Ecco, di tutte quelle donne che racchiudeva, la più vera mi era parsa proprio quella: una giovane donna nel cui sguardo vi era tutto ciò che non mostrava al mondo intero e che, probabilmente, solamente pochi conoscevano. E mentre tutti erano attratti dalla Flamencita, io lo ero da lei.

Si separarono prima ancora di giungere presso la sua abitazione. Non potevo crederci!
Si abbracciarono e non appena il tipo varcò la soglia di quella che forse era la sua casa, mi avvicinai a lei con discrezione dandole un po’ di vantaggio, facendo in modo che riprendesse il cammino.

«Buonasera... Leonora!» dissi, marcando di proposito sul suo nome. «O devo chiamarvi “Flamencita”?» la provocai.

Si bloccò. Si voltò a guardarmi strabuzzando gli occhi. Divenne seria ma sul suo volto potei scorgere un rossore. Le sorrisi con dolcezza. Stavolta cercai di non essere impertinente. Non volevo che scappasse.

«Di nuovo voi!?» esclamò sorpresa. Non mi parve accigliarsi, ma nemmeno usare un tono amabile.

«A quanto pare il destino vuol farci incontrare» dissi calmo e con un pizzico di ironia.

«Certo… il destino… come no!» controbatté ancora più sarcastica di me.

«Credete che io vi segua?» chiesi con finto risentimento.
Volevo metterla alla prova.

«Non è così?» domandò sicura di sé, riprendendo il cammino.

«Se è ciò che pensate…» Le lasciai di proposito il dubbio.

Mi divertiva la sua ostinazione a volermi tenere lontano senza, però, far davvero qualcosa per allontanarmi.

«Io non penso proprio niente» rispose piccata, lanciandomi un’occhiataccia.

«E quali sono i vostri pensieri?» Ero consapevole che con quella domanda mi ero spinto oltre i limiti, ma fu più forte di me guardando i suoi occhi.

«Non sono affar vostro.»

«Avete ragione. Scusate!» esclamai sincero.

Forse stavo esagerando. Non avrei voluto rovinare quell'incontro, ma la sua irremovibilità non riusciva a frenare la mia lingua.

«Io volevo solo…» Lasciai nuovamente la frase in sospeso calando gli occhi sui miei passi. Avrei voluto chiederle a cos’era dovuta la cupezza che avevo scorto nel suo sguardo.

Rallentò. Mi fermai di conseguenza e sollevai il viso. Fissai i suoi occhi che mi scrutavano.

«Perché fate questo? Perché volete a tutti i costi parlare con me? Non sta bene che mi seguiate sempre. Siete un uomo e qui in paese potrebbero pensar male. Vi prego!»

Nei suoi occhi non vi era rabbia, né risentimento per averla infastidita. Ma ciò che vi lessi mi fece male. Non era nemmeno pudore o paura di essere additata per aver rivolto la parola ad uno sconosciuto. Vi era una preghiera avvolta da una profonda tristezza. Capii di non poter più mostrare la mia spavalderia, di non poter più “giocare” con la sua finta indifferenza. I suoi occhi mi stavano pregando ed io non potevo non ascoltare quella silenziosa richiesta.

«Vi chiedo perdono per la mia sfrontatezza. Non mi vedrete più! Ma permettetemi di dirvi che non era mia intenzione mancarvi di rispetto. Sono uno straniero e non posso certo farvi promesse, ma voglio che sappiate che non sono qui dinanzi a voi per ottenere dei piaceri. Vi rispetto, che siate la Flamencita o semplicemente Leonora.»

Mai avrei voluto che pensasse di me che volevo “divertirmi” con lei. La guardai dolcemente prima di andare via.

La zingara dell'AndalusiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora