Capitolo 27

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Leonora dovette tornare a casa. Aveva poco tempo a disposizione. La sua fuga non era stata premeditata, aveva approfittato del momento in cui sua madre riposava. Ma fu l’arrivo improvviso di sua cugina, poi, che le aveva permesso di lasciare casa per poco, giusto il tempo di venire a cercarmi.
Ovviamente, prima che andasse via da me, mi accertai che fosse calma. Le promisi che, in qualche modo, avremmo trovato una soluzione, ma il dubbio sul suo viso non nascondeva il suo, ormai, essersi arresa a quella realtà che non poteva evitare. Non riuscii a dirle nulla, l’accarezzai e le dissi solo che l’avrei aspettata al fiume quel pomeriggio, o il giorno dopo, o l’altro ancora finché non l’avrei rivista di nuovo.
E intanto pensavo a cosa fare, a come poterla liberare dalla “prigione” della sua stessa vita.

Sulla strada del ritorno incontrai Pablito, sorridente e fiero.

«Allora? È venuta Leonora?» mi chiese curioso.

«Tu come lo sai?» domandai perplesso.

«Mi hai chiesto tu di aiutarti» esclamò basito.

Lo scrutai. E non ci mise molto a raccontarmi di aver mandato la cugina di Leonora a casa sua affinché lei potesse venire da me.
Lo ringraziai e pensai a quanto fosse fortunata Leonora ad avere un amico come lui, che l’avrebbe sempre aiutata.

«Stalle sempre vicino, Pablito. Promettimi che qualsiasi cosa accada tu le starai sempre accanto» gli dissi con una morsa al cuore.

Purtroppo, non riuscivo più a camuffare ciò che dentro di me si stava facendo largo, ossia la consapevolezza di un destino già definito e al quale nessuno poteva opporsi.

«Perché mi dici questo? Andrai via?» mi domandò Pablito, sgranando gli occhi.

«Spero di no, amico mio. Spero di riuscire a trovare il modo di rimanere» risposi, pensando a quanto sarebbe stato difficile vivere vicino a lei e non poterla avere.

E quel pomeriggio successe qualcosa che non mi sarei aspettato. Leonora mi raggiunse al fiume, il volto rigato di lacrime, non riusciva a proferire parola. Mi si gettò al collo ancora più disperata. La strinsi a me.

«Joachim è qui… è tornato. È finita, Sebastian! La mia vita è finita» singhiozzò.

«Shhh, calmati, ti prego, calmati!» le sussurrai, benché anch’io in quel momento mi sentissi morire.

Attesi che il suo pianto si attenuasse. La scostai di poco per poterle prendere il viso tra le mani. Chiuse gli occhi beandosi di quel contatto.
Come un tenue raggio di sole che compare all’improvviso durante un acquazzone, sul suo volto spuntò un sorriso. Le sue gote si tinsero leggermente di rosso. Le sue mani stringevano, quasi tremanti, il tessuto della mia camicia. Mi persi ad osservarla, per imprimere quell’immagine nella mia mente, quel viso che parve rilassarsi nonostante la tempesta.

Il dolce sciabordio del fiume sembrava cullarci. Il fruscio lieve degli alberi sull’altra sponda e il cinguettio di qualche uccellino accompagnavano i nostri respiri. Non vi erano altri suoni o rumori a rompere quel silenzio, solo la voce della natura.

Avvertii le labbra di Leonora sulle mie. Le sfiorò, per poi premerle con forza. E lasciai che le nostre bocche si parlassero a quel modo, baciandosi avide, muovendosi come in una danza, rincorrendosi e cercandosi come due ballerini in un flamenco apasionado, con l’unica differenza di afferrarsi ed amarsi.

La sentii sussurrare qualcosa nell’attimo in cui ci staccammo, ma non del tutto, per riprendere fiato. Eravamo sempre labbra contro labbra ed io non volevo smettere di baciarla. Non capii cosa disse, finché non lo ripetè e le mie orecchie udirono ciò che mai mi sarei aspettato.

«Amami, Sebastian! Voglio essere tua. Ti prego, amore mio!»

Quelle parole sussurrate, quella richiesta inattesa, mi spiazzarono.
Guardai Leonora negli occhi; sembravano implorarmi, brucianti di un desiderio che gemeva di già nel mio cuore.

La zingara dell'AndalusiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora