Capitolo 26

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Il tempo sembrava non passare mai. Le ore della notte erano interminabili, mille pensieri vorticavano nella mia mente. Possibile che a Leonora non fosse consentito di essere felice?

Ripensai anche alle parole di Pablito, mi aveva detto che quel Joachim sarebbe presto tornato ad Almendra. Davvero Leonora avrebbe rinunciato a me per sposare lui? Capivo che tradire una promessa fatta soprattutto ai suoi genitori l'avrebbe, in un certo senso, portata al disonore.

Quante giovani donne sono costrette a prendere come marito uomini imposti dalla propria famiglia; sono i genitori a decidere del loro futuro e non possono opporsi. Ragazze costrette ad accettare un uomo che magari non ameranno mai. E se una qualunque fanciulla si opponesse sarebbe ripudiata, additata come ingrata ed immeritevole di essere ancora considerata figlia. Ed è così da secoli.

Al solo pensiero che anche la mia Leonora non poteva scegliere una sorte diversa, il cuore mi si strinse in una morsa da farmi sentire inutile ed impotente dinanzi a quella realtà.
Eppure, non mi sarei arreso.

***

Feci avanti e indietro per le stradine del borgo. La primavera inoltrata inebriava i sensi con i suoi profumi, col tenue calore che toglieva definitivamente il gelo dell'inverno appena trascorso. Vi era nell'aria una parvenza di speranza, intrisa di quella sensazione che sovviene, improvvisa, ad alleggerire il cuore. Il tormento e il dolore soffiati via da un leggero alito di vento che portava con sé l'olezzo dei mandorli e dei peschi. E il mio cuore tornò a battere regolare, rianimato da una fiducia inaspettata quando il suono festoso delle campane, della chiesa lì nelle vicinanze, riecheggiò nella piazza e nell'anima mia.

Attesi per l'intera mattina un messaggio da parte di Pablito; l'unica volta che lo incrociai fece spallucce, per poi sgattaiolare via dopo aver ammiccato furbamente. Attendevo, dunque, paziente una sua mossa affinché trovasse un modo per far evadere Leonora da casa, la sua stessa casa che in quel momento immaginai essere una prigione per lei.
Nel mio vagabondare pensieroso, ma rianimato da fugaci attimi di speranza, mi ritrovai, ancora una volta, dinanzi a quel cancello verde. Il mio sguardo lo superò senza intralcio, incontrando, però, nient'altro che panni stesi ed alberi in fiore per tutto il tempo che rimasi lì. Di lei nessuna ombra.

Fu un insolito richiamo in lontananza che mi destò e mi portò via di lì. Mi allontanai furtivo; non temevo per la mia sorte ma per ciò che ancora sarebbe potuto accadere a Leonora. M'incamminai lungo il sentiero finché la figura rigida e spavalda di Juanita arrestò i miei passi. Sembrava volermi sfidare, con le braccia conserte ed appoggiata alla parete che separava due stradine.

«Buongiorno, Sebastian!» mi salutò, ma con aria scostante.

«Juanita... buongiorno!» risposi, quasi impacciato.

Ero stato davvero scortese con lei, l'avevo usata e non le avevo più prestato attenzione. L'avevo trattata come "niente" e di questo me ne vergognavo. Scusarmi non sarebbe bastato.

«Come stai?» le chiesi sincero, avvicinandomi, pur restando a debita distanza.

«Oh, io bene! Meravigliosamente!» rispose, sorridendo di sbieco ed alzando un sopracciglio. «Non si direbbe lo stesso di te» aggiunse pungente.

«Cosa te lo fa pensare?» le chiesi risentito.

«Il tuo penoso girovagare per le strade senza meta, con un'aria afflitta che non meriti.»

«Ti sbagli, non c'è nulla che mi turbi. Mi piace passeggiare da solo» mentii.

«Fingerò di crederti. Ma lascia che ti dica una cosa: non perdere tempo dietro a chi non merita le tue attenzioni, il futuro di alcune persone è già scritto, non puoi cambiare le carte.»

La zingara dell'AndalusiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora