Capitolo 33

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Leonora

È da circa un’ora che Juanito non apre bocca, esattamente da quando mi ha
chiesto di tornare a casa. Gioca seduto al tavolo; di tanto in tanto si alza per far volare il suo aeroplanino di carta sostenendolo con la mano. Di solito emette suoni e rumori che mi fanno sorridere, ma questa volta il suo gioco è silenzioso. Poi si risiede e prende a disegnare; solitamente canticchia o fa sproloqui quando è intento a colorare. Ora, invece, no. Il suo faccino è molto serio, concentrato e pensieroso. Me ne accorgo da come sospira.
Non voglio interrompere questo suo momento, anche se vorrei tanto sapere cosa prova. La presenza di Sebastian l’ha certamente turbato, soprattutto quando ha saputo che lui è suo padre. Credevo che lasciandoli da soli per un po’ avrebbe contribuito a far sì che Juanito gli si affezionasse; forse ho corso troppo, avrei dovuto procedere con cautela, ma alla domanda di mio figlio non ho saputo mentire. Non immaginavo quella sua reazione; al contrario, avevo sperato che fosse felice di conoscere, finalmente, suo padre.

«Amore della mamma, lavati bene le manine che ora mangiamo» gli dico, avvicinandomi con la tovaglia per poter apparecchiare la tavola.

Sempre in silenzio si alza e recupera tutti i suoi giochini, che va a riporre sul nostro letto, per poi incamminarsi nel tinello dove lo scorgo lavarsi le piccole mani nella tinozza.
Nello stendere la tovaglia mi accorgo che il suo disegno è rimasto sul tavolo e sussulto quando noto cosa c’è disegnato: nel massimo delle sue capacità ha ritratto quello che sembra essere un giardino molto verde, con qualche fiore e un albero; in primo piano vi sono una donna che tiene per mano un bambino, o forse è il contrario. Poco distante da queste due figure c’è un uomo, il suo aspetto è inconfondibile per quanto l'abbia disegnato la mano ancora incerta di Juanito. Siamo io e lui, mano nella mano, e poco più accanto Sebastian. Già che non l’abbia più ritratto distante da noi disegnando un corpo anonimo e senza colori, come fa altre volte, per far intendere che il suo papà è lontano e non conosce il suo aspetto, è un gran passo e mi fa ben sperare. Sorrido mesta e ripongo il foglio sul tavolo proprio accanto al suo posto.
Ritorno con i due piatti fumanti e attendo che prenda per primo il cucchiaio per mangiare, ma inaspettatamente lo vedo fissare il cibo tenendo le manine unite in grembo.

«Non hai fame?» gli chiedo stranita.

Solitamente divora tutto ciò che gli preparo, tranne quando sta poco bene che diventa inappetente.

«Stai bene, Juanito?» continuo a domandargli preoccupata, accarezzandogli teneramente il viso e portando una mano sulla sua fronte per controllare semmai fosse accaldato. Sembra stare bene.

Annuisce, continuando a restare immobile e chinando il capo.

«Amore mio, cos’hai?» Mi sollevo e mi accoccolo accanto a lui.

Sospira forte per poi guardarmi. Il suo sguardo appare triste, dubbioso.

«Dove mangerà Sebatian?» La sua domanda mi stupisce.

«Non lo so, forse alla locanda.»

«Da solo?» chiede preoccupato.

«Penso di sì.»

I suoi occhi puntano al disegno sul tavolo accanto al suo piatto. Sospira di nuovo, quasi come se volesse rassegnarsi a qualcosa.

«Forse può mangiare con noi» esclama, voltandosi verso di me.

Lo guardo meravigliata, col cuore che sembra voler fare le capriole.

«Magari lo invitiamo per cena. Cosa ne pensi?» gli domando fiduciosa.

Acconsente smuovendo la testa.

«Ora, però, devi mangiare, su! Altrimenti penserà che io non cucini bene» dico scherzosamente per farlo sorridere.

La zingara dell'AndalusiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora