India - 1910
È notte fonda, non so per quanto tempo io abbia parlato, non me ne sono reso conto. Mi fermo col racconto di quel passato che è vivo nella mia mente come fosse successo ieri.
I miei occhi si sono gradualmente abituati al buio perché riesco a vedere il Guru ancora dinanzi a me. Ha gli occhi chiusi, probabilmente si è addormentato, ma mi chiedo come faccia stando seduto a terra, ritto e con le gambe incrociate. Rimango in silenzio. Non so se svegliarlo e dirgli di andare a dormire, ma la sua voce mi conferma, invece, che è ancora sveglio.
«Avanti, continua!» mi sollecita.
«È tardi. Meglio continuare domani» gli dico.
«Come vuoi, ragazzo.»
Resta pochi istanti in silenzio.
«La luna nasconde solamente il sole, non è notte. Non è mai notte finché da qualche parte c’è ancora luce.»Non comprendo le sue parole. Qualche istante dopo si alza e si dirige all’interno della struttura dove, da qualche tempo, occupo una piccola cella spartana nella quale vi sono solamente un materasso adagiato su una rete, un catino, uno scrittoio con una sedia e una finestra dalla quale intravedo i monti che circondano questo luogo mistico e quasi surreale che mi dà pace… quella stessa pace che provo distendendomi ora all’aria aperta, osservando una luna a metà e ritornando col pensiero alla mia Leonora...
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Nonostante quel futuro incerto non riuscivo a rinunciare a lei, né lei a starmi lontano. Ci incontravamo al fiume ogni giorno, trascorrevamo insieme ore parlando di noi, del nostro passato, di come la vita ci avesse provocato tanto dolore, seppure in maniera diversa, da renderci poi quelli che eravamo diventati. Leonora mi raccontava dei suoi sogni di bambina, di quanto le sarebbe piaciuto diventare una vera ballerina di flamenco…
«Ma tu sei già bravissima!» le dissi un giorno, accarezzandole le braccia mentre la stringevo al mio petto seduta tra le mie gambe sulla sponda del fiume.
Ancora ora riesco a percepire il contatto della sua pelle sotto le mie mani.
«Lo dici solo perché mi ami» mi punzecchiò, sorridendo.
«Hai ragione, ti amo, ma è comunque la verità» ammisi, raccontandole che era proprio a “causa” sua se mi ero trovato in quel paesino trascinato dall’entusiasmo di Gonzalo che fremeva dal farmi conoscere la Flamencita.
«Quindi devo ringraziare lui? Devo assolutamente concedergli un flamenco apasionado» mi provocò, mentre cercava di trattenere una risata.
«Non è il caso… lui non sa ballare» sbottai io, infastidito che il mio amico potesse solamente sfiorarla.
«O sarà perché sei geloso?» controbatté, non riuscendo più a rimanere seria.
«Non so cosa sia la gelosia» replicai, pur sapendo di mentire.
«Allora non avrai alcun problema quando qualcun altro si farà avanti al posto tuo.»
«Ascolta bene ciò che sto per dirti, zingara» le sussurrai, avvicinandomi al suo orecchio.
«Come mi hai chiamata?»
«Zingara… Tu sei la mia zingara, mi hai stregato, mi hai soggiogato col tuo modo di tenermi testa, con la tua finta recalcitranza quando cercavi di mantenere le distanze. Mi hai fregato con quel modo tutto tuo di passare dall’essere impertinente alla dolcezza più disarmante. E se inizialmente eri per me una sfida, sei diventata indispensabile al mio respiro, ai miei occhi…»
«Mi stai dicendo che non ti sei innamorato della Flamencita?» mi chiese, mentre continuavo ad accarezzare la sua pelle percorsa da brividi.
«Quando ti ho vista ballare la prima volta, i miei occhi non riuscivano a
staccarsi da te, dalla tua figura sensuale, ammettendo di non aver mai conosciuto una donna così bella in tutta l’Andalusia. E credimi se ti dico che di donne molto belle ne ho viste tante.»