Poco più tardi dall’aver rinunciato alla decisione di abbandonare Almendra, m’incamminai lungo le stradine che oramai conoscevo benissimo. Qualcuno accennava un saluto vedendomi passare, segno che non ero più una presenza completamente sconosciuta; in effetti, la locanda dove alloggiavo di sera era frequentata anche da uomini del posto che tra un bicchiere di vino o di rebujito si intrattenevano a parlare tra loro.
Mentre avanzavo nella mia passeggiata, che aveva uno scopo ben preciso, un assordante rumore mi distrasse dai miei pensieri. Poco più avanti, un ometto inveiva chino su se stesso mentre raccoglieva da terra una cesta dalla quale si erano rovesciate delle mele e molte delle quali oramai rotolavano giocose lungo il viale senza fermarsi.
«Ferme, ferme, voi, dove pensate di scappare?» disse, rialzandosi e cercando di recuperare buffamente i frutti che sembravano voler fuggire via. «Ah, vi ho prese a voi!» continuò sorridendo soddisfatto sotto i baffi neri, avvolgendo in grembo, all’interno di una casacca, le poche mele recuperate.
Osservavo la scena divertito e riconobbi quasi subito il tipo bizzarro che avevo visto in compagnia di Leonora. E in quel momento un’idea balenò nella mia mente, mentre un sorriso beffardo spuntò sul mio viso.
«Questa sì che si chiama fortuna!» esclamai tra me e me.
Nel momento in cui gli fui vicino, alzò di scatto la testa e con un gridolino di paura sussultò facendo cadere al suolo tutte le mele che aveva raccolto. Prima ancora che si riprendesse, mi chinai e iniziai a recuperare i frutti che ancora non avevano ripreso la corsa. Glieli passai e con rapidi movimenti lo vidi gettarli nella cesta. Poi feci ciò che aveva fatto lui poco prima, rincorsi le altre mele e tentai di riprenderne quante più potevo, notando come anche lui si fosse rimesso a raccoglierle mormorando tra le labbra qualcosa di incomprensibile.
«Ecco a voi, mi spiace non essere riuscito a prenderle tutte!» dissi, buttando nella sporta i frutti.
«Vi ringrazio, invece! Da solo ne avrei recuperato la metà. Anzi, se non mi aveste spaventato forse…»
Non lo lasciai finire. «Vi chiedo scusa, non era mia intenzione! L’importante è non aver perso tutto» esclamai pacatamente.
Annuì e continuò a ringraziarmi dicendomi che quella cassa di mele era la terza che portava da quella mattina. Ogni giorno riforniva alcune delle botteghe del borgo raccogliendo dal giardino di casa sua gli ortaggi e la frutta che gli venivano commissionati guadagnandosi così da vivere, oltre ad occuparsi anche di lavoretti manuali, come riparazioni varie nelle abitazioni del paese.
Intanto avevamo ripreso il cammino. Si stava dirigendo verso la parte opposta a quella che stavo percorrendo io poco prima, ma poco m’importò, tornai indietro con lui accompagnandolo e offrendomi di portare la cesta che non era proprio leggera. Mi chiesi come facesse a portare più volte al giorno quelle sporte pesanti e capii che la vita grama che probabilmente conduceva l’obbligava a trovare la forza di non arrendersi davanti ad umili lavori.
«Purtroppo non ho potuto studiare, come in tanti da queste parti, così devo arrangiarmi anch'io. Aiuto la mia famiglia come posso. Ma sto anche imparando a leggere e a scrivere» disse euforico continuando a parlarmi come se ci conoscessimo da tempo. «Sapete, c’è una mia cara amica che insegna ad alcuni bambini qui in paese e ogni volta mi porta con sé.»
A quelle parole rallentai e mi misi ancora di più in ascolto. Di tutto ciò che mi aveva raccontato fino a quel momento nulla m’interessava veramente, ma era l’unico modo per dargli fiducia e a quanto pareva ci stavo riuscendo senza il minimo sforzo.
«Vi siete stancato? Oh, vi chiedo scusa, ho parlato solo io, e tanto, e vi ho lasciato portare la cesta. Date a me. Voi avete sicuramente altro da fare» disse, cercando di riprendersi la sporta con le mele.
«Non ho nulla da fare. Mi fa piacere aiutarvi e… ascoltarvi. Continuate, vi prego!» lo esortai. Ora ero davvero interessato a ciò che mi stava raccontando. E senza dire altro, ripresi la marcia.
«Ah, bene, allora continuo» disse, contento di poter parlare ancora e sicuramente di non dover portare lui la pesante cesta.
Fu così che venni a conoscenza di come la sua migliore amica, la dolce Leonora, si occupava dell’istruzione di alcuni bambini. Lo faceva sì per lavoro, per guadagnare quel poco che le consentisse di aiutare sua madre malata, come mi raccontò l’ometto, ma anche per passione.
«Quei bambini la rendono felice, anche se per poco, vederla sorridere spensierata le accende il viso e i suoi occhi sono così luminosi che sembrano due stelle.»
A quelle parole non potei far altro che immaginarla mentre si prendeva cura dei bambini. Sorrisi.
«Lei non fa mai nulla se non per passione» aggiunse.
E in quel momento pensai a lei nelle vesti della Flamencita. Quindi anche ballare il flamenco in piazza, dinanzi a tantissima gente, era una passione… una passione ben diversa da quella dolce ed umile della maestrina.
Sperai che il tipo mi svelasse anche di quell’aspetto esuberante della sua cara amica ma la nostra “passeggiata” arrivò alla fine. In fretta, senza che nemmeno me ne rendessi conto, perso com’ero nei miei pensieri, prese dalle mie braccia la cesta e si congedò.
«Ah, e se avete bisogno di qualcosa basta che chiediate in giro di Pablito. Sarò a vostra disposizione» disse, per poi sparire rapidamente come per magia.
«Mi sarai utile eccome!» sussurrai, sorridendo di sbieco.
Ritornai sui miei passi. Ripercorsi nuovamente la stradina pensando a quanto potesse essere mutevole la bellissima Leonora. A quanto pareva
riusciva a trasformare il suo viso angelico in qualcosa di tutt’altro che innocente.Arrivai nei pressi della sua abitazione e mi fermai di fronte. Volevo vederla, volevo leggere nel suo sguardo qualcosa che ancora mi sfuggiva. Se pure mi avesse visto, però, non mi sarei avvicinato.
Attesi un po’, non avevo fretta. Poi, notai dei movimenti in giardino e scrutai con attenzione. Quando lei si voltò, un rossore le accese il viso. Pensai che si sarebbe arrabbiata, o che sarebbe scappata dentro casa. E invece rimase immobile a guardarmi. Al contrario di quanto mi aspettassi, mi parve di scorgere in lei turbamento. Nient’altro che turbamento. E mi chiesi che effetto le facessi davvero.
Senza nemmeno accennare ad un saluto, andai via. Le avevo detto che non mi avrebbe più rivisto, che non l’avrei più infastidita. E così avrei fatto con lei, Leonora. Ma non con la Flamencita. No! Con la bella ballerina di flamenco non mi sarei arreso e nella mia mente balenò un’idea...