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Jackie

Controllo il tremolio del ginocchio, deglutendo di fronte alla vista del penitenziario di Jacksonville. D'accordo, sapevo che l'edificio era vecchio e piuttosto austero ma non mi aspettavo che cadesse a pezzi da un momento all'altro. Le pareti sono tutte grigie, ormai consumate aggiungerei. Il cancello è arrugginito, il prato non è affatto curato e sembra che nessun operaio ci metta più piede da anni. Mi lecco il labbro inferiore, facendomi il segno della croce per poi compiere un passo avanti appena il cancello viene aperto. Cammino fino all'ingresso, salgo i cinque gradini davanti al portone e poi attendo che qualcuno mi apra.

Grazie al cielo non devo aspettare molto.

Una donna, alta e dai capelli grigi con una collana di perle nere al collo mi sorride cordiale. «Salve, lei deve essere la nuova psicologa del penitenziario» mi accoglie. Annuisco, stringendole la mano che mi porge con eleganza. «Salve, sono Jackie» mi presento, mentre lei mi si sposta per farmi entrare. Con il suo permesso entro nell'edificio. A quanto pare, anche le pareti interne sono grigie. Trattengo un sospiro affranto, pensando a quanto sia tetro questo posto. Capisco che è un carcere, ma un po' di colore non farebbe male a nessuno. Sotto i miei tacchi c'è un enorme tappeto persiano bordeaux, alla mia sinistra un bancone da receptionist – credo sia la postazione della signora che mi ha appena aperto.

«Non mi sono presentata, sono Simonette» sorride.

Ricambio, dicendole che il piacere è tutto mio.

«Sa, credo sia la prima volta che una psicologa così giovane venga a farci visita. Non mi fraintenda, non che le precedenti fossero vecchie o decrepite ma di sicuro non erano così fresche come lei» mi indica. Alzo un sopracciglio, piuttosto divertita da questa donna. Rimane in silenzio per qualche minuto, mi fissa da capo a piedi con attenzione e poi annuisce, schioccando le labbra. «Sì, prego mi segua così le mostro il suo ufficio» mi fa strada, percorrendo le scale centrali bianche dal corrimano color topo. La seguo, sorbendomi tutti quei gradini così atroci. Questo posto deve essere enorme, le scale centrali a un tratto si fermano e danno modo ai visitatori di scegliere se seguire quelle a destra o sinistra. Simonette si ferma sul primo gradino di quelle a sinistra, voltandosi in mia direzione. «Dall'altro lato ci sono gli uffici degli agenti, i bagni e anche gli archivi» mi informa. Annuisco, seguendola finché finalmente non tocchiamo il pavimento del corridoio. «Lei lavora da molto qui?» domando, tentando di stare al suo passo: è piuttosto veloce Simonette. Annuisce, dicendomi che lavora nel penitenziario da oltre trent'anni. «La prima porta a sinistra è il bagno, quella a destra è l'infermeria e invece quella al centro la condurrà al suo ufficio» mi informa, molto diligente. La ringrazio, stringendo la tracolla di pelle sulla spalla quando mi apre la porta. Sporgo il capo, osservando meravigliata il mio studio. È più grande di quanto pensassi. Lo spazio è rettangolare ma dietro la scrivania c'è una finestra che occupa quasi tutta la parete. A destra noto un'altra piccola stanza che funge da libreria.

È meraviglioso. «Tutto questo è mio?» domando strabiliata, lasciando la tracolla sulla scrivania di legno lucido. Annuisce, congiungendo le mani sul busto e mantenendo una posa raffinata. «Può arredarlo a suo gusto e piacimento» mi fa sapere, toccandosi le perle sul collo. La ringrazio, notando una pianta dalle foglie verdi sullo scaffale a destra della porta. «I suoi colleghi hanno pensato di accoglierla con un regalo, spero le piaccia» conviene.

«Grazie mille, spero di incontrarli di persona a breve.»

«Molto bene, la lascio ambientarsi. Tra poco verrà il direttore del penitenziario per scambiare due chiacchiere con lei, attualmente è fuori per questioni lavorative.» Ringrazio per la milionesima volta Simonette, guardandola brevemente. prima che chiuda la porta. Applaudo a me stessa, orgogliosa, sedendomi sulla splendida poltrona per poi rilassarmi contro lo schienale. Ho lavorato sodo per poter ottenere questo posto di lavoro, sono stata sballottata un po' in giro a dirla tutta: due anni fa lavoravo come psicologa in ospedale, ma mi hanno fatta fuori quasi subito perché la donna che sostituivo era uscita dalla maternità. In seguito ho lavorato al manicomio, esperienza orribile davvero: uno dei miei pazienti ha tentato di bucarmi il braccio con un ago una volta ma, grazie ai miei magnifici urli, nessuno si è fatto male per fortuna. Appena ho saputo che al penitenziario di Jacksonville cercavano una psicologa a tempo indeterminato ho immediatamente dato le dimissioni, tanto quella vecchia volpe di Cora – la mia sostituta – non spettava altro. E ora eccomi qui, seduta in un ufficio tutto mio dalle pareti color noce e il pavimento di marmo.

Sento il mio telefono suonare nella tasca esterna della tracolla di pelle, quindi apro la cerniera e lo tiro fuori per vedere chi mi desidera. È mia madre, ovviamente. Dopo l'accaduto al manicomio ha ripreso a chiamarmi ogni due ore, un po' come quando ero adolescente e uscivo a fare baldoria con le mie amiche. Rispondo, passando il dito sullo schermo. «Mamma, sono arrivata» la rassereno.

«Non ti hanno ancora bucata, vero?» chiede intimorita. Alzo gli occhi al cielo, dicendole di no. «Tesoro devi stare attenta, ricordati che nella tracolla ti ho messo lo spray al peperoncino in caso ti servisse» mormora a bassa voce.

«Mamma non ne avrò bisogno» sbuffo.

«Sei in un penitenziario, i lavori più pericolosi te li scegli tutti tu Jackie» borbotta.

Non ha tutti i torti.

Mia madre, Lizzie Green è una donna paranoica, germofobica e assolutamente precisina. Mi ricordo che da adolescente non potevo neanche camminare a piedi scalzi perché altrimenti le avrei sporcato il parquet. Mio padre è l'unico che riesce a calmarla durante le sue "crisi isteriche". «Andrà tutto bene mamma, stai tranquilla.»

«Tranquillo è morto insieme a fidati» mi rammenta.

Niente, mio padre è l'unico a reggerla in questi casi. Grazie al cielo non sono figlia unica, no, ho altri due fratelli su cui può concentrarsi tutti i giorni, più o meno.

«Vieni a cena da noi stasera?» domanda, speranzosa.

«Sì» alzo gli occhi al cielo, divertita. Mia madre ama quando torno a casa, avere tutta la famiglia al completo e cenare tutti insieme la fa sentire bene e, se basta questo a renderla felice, sono più che contenta di soddisfarla. 

Il Male In TeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora