2

2.6K 74 2
                                    

Jackie

Verso mezzogiorno, qualcuno bussa alla porta del mio ufficio. Poiché sono educata e cordiale, invito chiunque sia dall'altro lato a entrare, vedendo presto un uomo alto e ben piazzato con un completo verde oliva e la barba curata. Mi ripeto in testa che sicuramente sarà il direttore del penitenziario, d'altronde Simonette mi aveva avvertita della sua imminente visita. Richiudo il portatile, mentre l'uomo mi sorride. «Salve, lei deve essere la nuova psicologa» mi porge la mano, subito dopo la stringo. «Sono il direttore dell'istituto» mi informa, compiendo un passo indietro per ristabilire lo giusto spazio tra di noi.

«Sì, lo immaginavo: la segretaria mi aveva avvertita.»

Quest'uomo sembra avere anni di esperienza alle spalle, ho sentito dire che si avvicina alla pensione ma magari sono solo fandonie. Non so quanti anni abbia, ma se li porta più che bene. «Mi piacerebbe scambiare quattro chiacchiere con lei, le va di fare una passeggiata?» propone. Annuisco, lasciando la tracolla sulla poltrona per poi fare il giro della scrivania e raggiungerlo fuori. Durante la passeggiata nel corridoio, il ticchettio dei miei tacchi è l'unico rumore che si sente. Per essere un penitenziario, questo edificio è parecchio silenzioso oltre che inquietante. «Sa, è giusto che la informi a dovere signorina Hole» si schiarisce il tono, guardando dritto e tenendo le mani dietro la schiena. «In questo penitenziario le cose non sono facili: dietro le sbarre non abbiamo piccoli vandali, ma uomini ormai persi.»

Annuisco, continuando ad ascoltarlo con interesse.

«Tutte le analiste che hanno avuto a che fare con i miei detenuti hanno dato le dimissioni dopo tre mesi, voglio che lo sappia.» Deglutisco, sentendo un certo bruciore allo stomaco. So che il mio lavoro non è facile, spesso mi porta ad avere contatti con persone decerebrate, instabili e pericolose. Tuttavia, prendo sempre tutto come una sfida: qua si parla di capire le menti umane, di studiarle e di comprendere quale sia il loro problema e se sia risolvibile. «Quando ho dato la conferma sapevo a cosa andavo incontro, direttore. Il mio lavoro comporta dei rischi, sapeva che ho prestato servizio in un manicomio?» domando. Annuisce, dicendomi di aver letto il curriculum delle referenze. «Un mio paziente ha tentato di bucarmi con un ago durante una delle nostre sedute, credevo di conoscerlo fino in fondo, di essergli in qualche modo di aiuto, ma lui in realtà mi ha sempre vista come una minaccia.» Il direttore mi punta addosso i suoi occhi verde bottiglia, pensieroso. «Non ha ancora visto i detenuti vero?» domanda e io nego con il capo. «Mi segua» avanza, scendendo i gradini delle scale centrali. Simonette ci getta un'occhiata breve, ritornando presto al suo computer. Di lato al bancone si staglia un lungo corridoio semi-buio, ci incamminiamo al suo interno e presto il direttore tira fuori dalla tasca delle chiavi. Un portone di legno scuro è posizionato alla sua destra, abbassa la maniglia e accende la luce. Sporgo il capo interessata, vedendo altre numerose scale. Mi domando quanto ancora i miei piedi debbano soffrire. «Da questa parte» mi richiama e io inizio a scendere gli scalini dietro di lui.

Al termine degli scalini inizio a sentire un gran vociare. «Si tenga in disparte dalle sbarre: sono pur sempre uomini» sospira, prima di attraversare una porta automatica di vetro. Vedo immediatamente un lungo corridoio dai pavimenti bianchi e lucidi. Sia a destra che a sinistra vedo una sfilza di celle numerate, hanno tutte le sbarre. Cammino lungo il corridoio, sentendo dei fischi provenire alla mia destra. «Ci ha voluto fare un regalino direttore?» parla l'uomo dalla pelle abbronzata, magro ma giovane. «Ehi biondina, sei di passaggio?» arranca un altro alle sue spalle, piuttosto buzzurro. Le voci si accavallano, sento qualcuno fare apprezzamenti un po' troppo spinti. Qualcun altro chiede delle sigarette, mi sembrano tutti esausti e nervosi. Svoltiamo nel corridoio a sinistra, naturalmente trovo altre celle attaccate alla parete. «Come passano il loro tempo?» chiedo, interessata a sapere le loro attività extra. «Nel fine settimana hanno la possibilità di uscire in cortile per prendere aria. Le visite da parte dei familiari avvengono il mercoledì, alle cinque» aggiunge. Alla fine del corridoio, noto un'altra porta ma questa è blindata e con una tavola di legno incastonata. Mi sembra un po' eccessivo per un detenuto, tant'è che chiedo al direttore come mai quella porta sia in quelle condizioni. «Quella è la cella di isolamento, attualmente è occupata da uno dei nostri detenuti» spiega, grattandosi il mento. «Non si preoccupi, non avrà a che fare con quell'uomo» mi rasserena, più o meno.

«Come mai?» domando.

«Non sappiamo come potrebbe reagire.»

La confessione del direttore mi lascia intorpidita, confusa. Nonostante mi proponga di ritornare al piano superiore, continuo a domandandomi chi si nasconda dietro quella cella mentre facciamo dietro front. Torniamo alla postazione di Simonette, nel frattempo un agente si avvicina al direttore e gli chiede di scambiare due chiacchiere. «Sì, mi scusi signorina Hole» si congeda e io lo saluto con un gesto di mano vacuo. Lo guardo andare via, salire le scale e poi mi volto verso Simonette.

«Ha paura?» domanda, guardandomi intensamente.

Scuoto il capo, perché a dirla tutta non so come sentirmi. «No, ma sicuramente sarà una bella sfida per me: non ho mai lavorato in un penitenziario e adesso sono leggermente agitata» sorrido nervosa, tamburellando le unghie appuntite e curate contro il bancone.

«Si abituerà, glielo assicuro.»

Prenderò le parole di Simonette come porta fortuna. Una voce alle mie spalle mi ridesta, vedo un altro agente scendere le scale. Un tipo alto, dai capelli color cenere e gli occhi azzurri. «Salve, lei deve essere la nuova psicologa» mi sorride, venendo in mia direzione con la divisa nera addosso. È carino, mi costa ammetterlo ma è davvero attraente. Mi porge la mano e io la stringo con un sorriso, sentendo l'occhio attento di Simonette addosso. «Piacere mio, Jackie» mi presento, guardandolo in viso. «Nolan» mi dice il suo nome, continuando a stringere la mano. La tosse improvvisa di Simonette lo fa risvegliare dalla trance, mettendolo in imbarazzo. «Scusami» dice. Compie un passo indietro, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni scuri mentre io trattengo un sorriso divertita.

Mi sposto una ciocca bionda dietro l'orecchio. «Volevo ringraziare te e gli altri agenti per avermi comprato la pianta, la trovo splendida.»

«Sì, volevamo farla sentire a casa» suppone.

«Comunque il regalo mi è piaciuto, quindi vi ringrazio. Ora purtroppo dovrei proprio tornare in ufficio, ma è stato un piacere conoscerti Nolan» esordisco, stringendo la sua mano ancora una volta mentre mi fissa insistentemente.

«Il piacere è stato tutto mio» afferma rocamente.

Ben presto salgo gli scalini, sentendolo dire a bassa voce che sono più bella del previsto e che lo rendo nervoso. Mi mordo il labbro inferiore, trattenendo una risata di cuore. Il pomeriggio passa lentamente, scrivo su un post-it alcune attività che vorrei eseguire e poi chiudo il portatile poiché è finito il mio turno. Saluto Simonette, chiedendole un favore prima di andarmene via. «Potresti recapitarmi il numero del direttore? Ho intenzione di svolgere alcune sedute già da domani ma ancora non ho avuto modo di parlargliene» inspiro. Annuisce, porgendomi l'abecedario con il suo numero firmato. «Mi raccomando, le chiamate solo dopo le dieci del mattino» alza un dito, a mo' di sergente. Annuisco, dicendole di non preoccuparsi. La saluto dopo essermi salvata il numero, richiudendomi alle spalle il portone del penitenziario. Appena salgo in auto mi do una breve occhiatina allo specchietto centrale. Il trucco leggero ancora non è stato spazzato via dalla stanchezza. Giro le chiavi nel nottolino della Mini Cooper, spostandomi dietro le spalle i capelli troppo lunghi e ormai umidi per via del calore.

Accendo le luci, perché ormai sono le sette di sera e mi avvio verso casa dei miei genitori. Circa venti minuti dopo arrivo nel vialetto in cui sono cresciuta, da queste parti ci sono villette da per tutto. Lascio l'auto dietro quella di mio padre, perché tanto sarò la prima ad andarmene e poi spengo le luci. Mi fa strano suonare nella mia stessa casa, lo trovo ridicolo e anche una perdita di tempo ma siccome non ho portato il doppione delle chiavi devo per forza farlo. Suono, poi busso ancora e la porta si apre rivelandomi il volto di mio fratello Glenn. «Ehi» ci salutiamo con un bacio sulla guancia, mentre una testolina spunta in mezzo alle sue gambe. Sorrido, salutando con voce più dolce la mia nipotina. «Ciao, bellissima» sorrido, prendendola in braccio. «Appena ha saputo che saresti venuta ha iniziato a tirare la gonna di nonna e a guardare di continuo la finestra» scuote il capo, linciandola con i suoi occhi verde chiaro tali e quali ai miei. Bacio le guance a Judith, mentre lei arrossisce e nasconde il capo. Entro in cucina con lei in braccio, ridestando mia madre che intanto è impegnata ai fornelli, neanche fosse una cuoca di qualche ristorante a cinque stelle con quel grembiule e la bandana. «Non capisco, si sarebbe dovuto addensare!» esclama contrariata, muovendo il cucchiaio nella pentolina. Alzo gli occhi al cielo, rimettendo a terra Judith mentre mi guardo intorno alla ricerca di mio padre e di Sierra. A un tratto, sentiamo il rumore di una motosega e sia io che mia madre ci guardiamo con sguardo sospettoso. «Non ci credo, si è messo a tagliare i tronchi a quest'ora!» scuote il capo contrariata mentre io ridacchio e le do una mano ai fornelli, sperando di non bruciare nulla.

Il Male In TeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora