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Jackie

Il suono incessante della sveglia mi costringe ad aprire gli occhi. Sbatto le ciglia, guardando le mura bianche della mia camera da letto per poi passarmi una mano tra i capelli. Spengo il condizionatore con il telecomando, tirandomi su a metà busto. Ieri sera sono rientrata a casa per le undici e mezza, mi sono fatta una doccia e poi mi sono coricata a letto. Aver passato la serata con i miei mi ha distratta dal lavoro, da Beltran. Adesso che sono da sola, ricomincio a pensarlo e i sensi di colpa mi divorano viva. La mia ultima conversazione con Nolan mi ha fatto capire quanto stia diventando pazza in quel penitenziario. Ho provato empatia e tristezza per un uomo che queste due emozioni non sa neanche cosa siano. Entro in bagno, sciacquandomi il viso più volte. Nei minuti successivi mi trucco, applicando sul viso una crema rinvigorente, il mascara e un rossetto nude sulle labbra. Vado in camera mia per vestirmi, tirando fuori dalla cabina armadio una tutina di jeans a zampa di elefante con le maniche a sbuffo corte e calanti. Infilo i sandali dal tacco quadrato trasparenti e poi mi spruzzo il profumo. I capelli, stavolta mossi, svolazzano sulla mia schiena a ogni passo mentre mi dirigo verso il portone con la tracolla in spalla. Quando arrivo al penitenziario, mi accorgo che Simonette non è al bancone ma che c'è un'altra ragazza. Deve essere la sua sostituta, la ragazza di Chicago.

«Salve, lei è la nuova segretaria?» domando.

La ragazza annuisce agitata, ha un aspetto particolare: indossa un cappellino alla francese rosso, una salopette di jeans e una magliettina bianca. La giovane ha la pelle lattea, lentiggini e due iridi caramello fuso piuttosto luminose. «Sì, mi chiamo Megan» mi porge la mano, la stringo con piacere mentre lei sorride imbarazzata. «Scusami, sono sudata» soffia.

«Sono Jackie, la psicologa» spiego.

Annuisce, alzando il dito per farmi segno di aspettare. Da sotto il bancone tira fuori la scatola delle ciambelle che stavo cercando e lei mi fa segno di prenderne una.

«Grazie mille, tu ti sei servita?» chiedo.

Scuote il capo, mentre io gli chiedo quale voglia.

Non è così male come pensavo, sembra più piccola di me e anche timida. Per qualche strano motivo, credo che io possa andare più d'accordo con lei che con mia sorella. «Adesso devo scappare, ci vediamo Megan» la saluto dopo averle passato una ciambella glassata al caramello.

«Il piacere è stato mio!» esclama tremolante.

Sorrido, salendo i gradini con compiacimento.

Affronto le sedute con distrazione, rivedo alcuni moduli compilati dai detenuti e rimango colpita dalla passione di Costa: gli piace suonare il violoncello. «Potrei chiedere al direttore di organizzare un'attività musicale» esordisco, guardando il ragazzo dietro la scrivania. Costa mi guarda con poca convinzione, come se sapesse che fosse una causa persa. «Non credo accetti.»

«Tu lascia fare a me» lo rassereno.

Sospira ma poi annuisce, quindi prosegue la seduta.

Verso l'ora di pranzo, resto finalmente sola in ufficio.

Sospiro fiacca, richiudendo il portatile proprio quando sento qualcuno bussare alla mia porta. Dico un "avanti", alzando gli occhi verso la porta. Rachel Incrocia le braccia al petto, guardandomi con fare esasperato.

«Vieni a pranzare con noi o ti rintani qui?» domanda.

«Sta' tranquilla, verrò con voi come sempre.»

Qualcosa nella voce mi tradisce, perché appena faccio il giro della scrivania Rachel mi prende dal polso e mi guarda con compassione. «Vuoi vederlo, vero?» domanda, facendomi perdere un battito. Deglutisco, distogliendo lo sguardo. «Non ha importanza quello che voglio io, ma quello che è giusto» mi scappa un sorriso leggero ma devastato. Rachel scioglie la presa, riflettendo a lungo su qualcosa. Apre e chiude la bocca, ma alla fine decide di non dire niente. «Vieni, andiamo a pranzare.» Tra me e Nolan c'è il silenzio più totale mentre mangiamo, noto che di tanto in tanto mi lancia occhiatine ma io non ricambio mai lo sguardo. Da una parte provo rabbia per avergli ceduto le chiavi con così tanta facilità, dall'altra invece sollievo perché alla fine dei conti l'ha fatto per proteggermi. A un certo punto, gli agenti escono fuori dalla tavola calda per fumare una sigaretta mentre Rachel va a pagare. Le porgo i miei soldi ma lei rifiuta, dicendo di voler offrire lei per tutti stavolta. Aspetto seduta al tavolo, accorgendomi della giacca di Nolan sulla spalliera del divanetto. Deglutisco, sapendo benissimo di essere fuori di testa. Mi guardo intorno, getto un'occhiata ai due agenti ancora fuori e voltati di spalle per poi chinarmi verso il tavolo. Frugo nella tasca interna della giacca di Nolan, trovando le chiavi della cella d'isolamento.

Ritorno a sedermi, nascondendole dentro la mia tracolla. Dopo pochi secondi torna Rachel con lo scontrino in mano, lamentandosi della mancia un po' troppo alta che ha dovuto dare ai camerieri. Appena ritorniamo al penitenziario aspetto qualche minuto prima di uscire dal mio ufficio. Percorro il tragitto verso il seminterrato, apro il portone e poi scendo i numerosi scalini. Passo le porte scorrevoli, sentendo gli schiamazzi dei soliti detenuti. Alzo gli occhi al cielo quando sento uno di loro chiamarmi zuccherino. Non ho molto tempo, scommetto che Nolan si accorgerà subito della fregatura e verrà a cercarmi.

Si arrabbierà.

Ma non mi interessa al momento.

Voglio solo sapere se Beltran sta bene, se è cosciente. Deglutisco, inserendo le chiavi nella serratura della cella con le mani tremolanti. Faccio il primo scatto, sono pronta per fare il secondo quando a un tratto sento qualcuno arpionarmi dal polso e sbattermi contro il muro. Gemo di dolore, percependo una fitta alla schiena. Gli occhi azzurri di Nolan mi studiano dall'alto con disappunto, rabbia e un pizzico di fastidio. «Cosa credi di fare Jackie?» sbotta.

Strido i denti, tentando di ribellarmi alla sua presa. «Niente, lasciami stare» mormoro.

È sempre stato così forte?

«Non importa quanto io cerchi di farti ragionare, di proteggerti... tu cercherai sempre di ficcarti nei casini» scuote il capo mentre io stavolta perdo la pazienza. Riesco a liberare i polsi, lo fronteggio e gli arrivo a un soffio dal viso. I suoi occhi mi sfidano, ma i miei lo vogliono abbattere come il peggiore dei nemici.

«Non ti ho mai chiesto di proteggermi Nolan, stai facendo tutto da solo. Ho ventisette anni, pensi seriamente che abbia bisogno di qualcuno che mi dia dei consigli?» sbotto, sorridendo frustrata. Assottiglia gli occhi, mordendosi il labbro inferiore. «A quanto pare sì, visto che non capisci la gravità della situazione: in questa maledetta cella non hai un cucciolo indifeso, ma un assassino che ha ucciso e ucciso ancora senza alcun rimorso, senza alcuna ragione e tu» mi punta il dito addosso. «Sembri fottertene» esordisce con tono amaro. Il suo sguardo mi fa sentire di nuovo la peggiore persona mai esistita. Cosa posso farci? Non riesco a far finta di essere un'altra persona, non ci riesco. A modo mio, provo qualcosa per Beltran e questo mi confonde, mi rende istintiva e mi porta a prendere le scelte sbagliate. Sento i miei occhi divenire lucidi, ormai sono alle strette e so già che dovrò ridargli le chiavi. Piango perché Nolan ha scoperto quanto sia pessima oppure perché non posso vedere Beltran? Scuoto il capo, sbattendogli la chiave contro il petto con nervosismo. «Tieniti questa maledetta chiave» sbotto, superandolo con una spallata per poi tornarmene verso le scale. Mi asciugo le guance ormai bagnate da alcune lacrime solitarie, sentendomi una donna sbagliata in tutto e per tutto. Continuo a commettere errori su errori, non importa quanto tempo passi: prediligerò sempre l'orrore alla normalità.

E questo fa di me una persona orribile.

Il Male In TeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora