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Jackie

Gli incontri familiari sono da poco iniziati.

Ovunque mi giri vedo donne con dei neonati in braccio, adolescenti e persone anziane. Prendo un respiro profondo, ricordandomi che in fondo quegli uomini segregati dietro le sbarre sono pur sempre padri o figli di qualcuno. La sala degli incontri si trova al piano terra, bisogna percorrere il corridoio semi-buio fino in fondo e poi aprire una porta blu blindata. All'interno ci sono almeno sei tavoli con quattro sedie, ciascuno dei detenuti viene sorvegliato da fuori. Nolan e io osserviamo l'incontro tra Hernandez e i suoi figli. Sorrido, non posso fare a meno di farlo quando noto le due gemelline di otto anni corrergli incontro. Hanno entrambe dei capelli lunghi e ricci, sono praticamente uguali e hanno anche gli stessi vestiti fucsia. Hernandez ha gli occhi lucidi, mentre le prende in braccio. «Posso farti una domanda?» mi rivolgo a Nolan, alla mia sinistra. Annuisce, guardando dritto. «Come mai Hernandez si trova in questo posto?» chiedo. Nolan si gratta il mento privo di barba, dicendomi che non potrebbe dirmelo in realtà. Mi guarda brevemente e io tento di corromperlo con una piccola gomitata. «Quell'uomo è qui per spaccio, non posso dirti altro.»

Annuisco, facendomene una ragione.

In qualche modo, mi dà sollievo sapere che non è qui per omicidio. Mentre getto un'occhiata a Costa mi accorgo che non guarda in faccia neanche suo padre. Credo Ricardo sia il più giovane tra tutti i detenuti qui dentro.

Scuoto il capo, buttando un'occhiata anche a Dalton alla sinistra di Nolan. Dalton Moore chiacchiera animatamente con sua madre, ma sembra anche innervosirsi per qualche motivo particolare e infatti a un certo punto si alza dalla sedia chiedendo a Nolan di riportarlo in cella. Compio un passo indietro, osservando lo sguardo spento di sua madre. quella donna avrà una sessantina d'anni, è bassina e sembra affranta. Nolan chiede ad altri due agenti di rimettergli le manette e di portarlo in cella, quindi io mi appiattisco al muro fuori dalla porta e lo osservo mentre esce dalla sala con spalle rigide. I miei occhi, automaticamente, finiscono sulla porta dell'ufficio del direttore. Non mi è passato inosservato il fatto che tutti quanti i detenuti abbiano avuto un'occasione per parlare con i propri genitori o parenti tranne uno – l'uomo rinchiuso nella cella di isolamento. Incrocio elegantemente le braccia al petto, iniziando a far vagare la mente altrove. Più tardi, poco prima della fine del mio turno, decido di andare dal direttore per parlargli di quanto accaduto oggi. Inoltre vorrei visitare l'uomo nella cella d'isolamento. Simonette ha la testa china nel computer quando scendo le scale, mi dirigo nel corridoio semi-buio mangiando metri di pavimento. Sto per bussare alla porta, quando a un tratto sento un'altra voce all'interno dell'ufficio. Assottiglio gli occhi, riconoscendo il tono di Boone. Allungo l'orecchio, mordendomi il labbro appena percepisco dei lievi ansimi. Schiudo le labbra, non credendo a ciò che sento. Compio un passo indietro, chinandomi verso la serratura per tentare per gettare un'occhiata all'interno.

Riesco a vedere poco, ma quello che ho colto mi basta. Il direttore è chinato con entrambi i palmi sulla scrivania, ha un volto perso nel piacere mentre dietro di lui c'è Boone con espressione rabbiosa che spinge ardentemente dentro di lui. Quei due hanno una relazione segreta per caso? So che il direttore è sposato ma a quanto pare nasconde anche un'amante. Smetto di spiarli, tanto è chiaro quello che stanno combinando e io non voglio immischiarmi più del dovuto. Sento i grugniti di Boone e la scrivania spostarsi con dei cigoli, quindi decido di compiere un passo indietro e poi un altro. Non so perché, ma i miei piedi mi conducono verso il portone che conduce alle celle. Non è stato chiuso, quindi lo tiro e poi scendo i gradini dirigendomi verso le porte scorrevoli. Ignoro i commenti della maggior parte dei detenuti o il loro vociare e svolto l'angolo per poi gettare un'occhiata alla porta blindata. Mi fermo sul pavimento, stringendo i pugni contro i fianchi. Non ho una chiave, non posso aprire quel portone ma forse posso farmi sentire. Mi avvicino cautamente, come se quell'uomo fosse in grado di vedermi o percepirmi. Sento il mio cuore battere veloce, la paura mi mangia viva e le chiacchiere degli altri detenuti fanno accrescere la mia ansia di essere scoperta. Busso alla porta blindata, schiarendomi il tono. «Non dovrei essere qui» questo è tutto quello che dico. «Se qualcuno mi vedesse probabilmente non mi farebbe più scendere da queste parti» sorrido amareggiata. «Non ci siamo ancora presentati comunque, sono la nuova psicologa del penitenziario» lo informo, ma non ricevo risposta. Sto per aprire di nuovo bocca quando sento la voce di Rachel.

«Jackie, cosa diavolo ci fai qui? Sei impazzita?» esclama, venendo in mio soccorso sotto i fischi degli altri detenuti. «Lo so, non sarei dovuta venire senza un'agente, mi dispiace.» Scuote il capo, prendendomi dal gomito per farmi fare dietro front. «Ti piace proprio ficcarti nei casini vero?» esordisce, lasciando la presa appena siamo sulle scale. Mi domando se lei e gli altri sappiano della relazione tra Boone e il direttore, tuttavia non apro bocca al riguardo.

«Cosa ci facevi nei sotterranei?» domanda.

«Volevo parlare con il detenuto nella cella blindata.»

Sgrana gli occhi, fissandomi come se fossi un alieno. «Ti avevo detto di stare alla larga da quella cella, non capisco perché tu sia così ostinata.» Saliamo le scale e io faccio spallucce, dicendole che non mi interessa ciò che dicono gli altri. «Non mi interessa quale sia la sua colpa, so soltanto che non è corretto lasciarlo chiuso in quella cella ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Non posso visitarlo perché me lo avete proibito, non lo fate neanche partecipare alle attività extra o prendere un po' d'aria» elenco esterrefatta. «Voglio fare il mio lavoro Rachel e voglio farlo bene» mi impunto, salendo finalmente l'ultimo gradino.

«Mi stai dicendo che vorresti incontrarlo?» esordisce. Stringo i pugni contro i fianchi, annuendo imperterrita. «Sei più pazza di quanto credessi» scuote il capo, esaurita. Getto un'occhiata all'ufficio del direttore alla mia destra, domandandomi se abbia finito l'amplesso con Boone. «Senti, dovresti parlarne con il direttore» alza le mani lei. «Non voglio saperne nulla io» sostiene.

Annuisco, assottigliando gli occhi quando mi viene in mente un'idea malsana. Rachel purtroppo deve ritornare al piano di sopra, perciò la saluto con la mano. Appena è lontana, busso alla porta del direttore e attendo che mi faccia entrare. «Avanti» mi invita e io abbasso la maniglia. Alza gli occhi dal suo dossier, curvando un sopracciglio appena mi vede. Quell'espressione fintamente sorpresa di vedermi mi manda in bestia, tuttavia richiudo la porta alle mie spalle e mi siedo sulla poltrona. «Non mi aspettavo una sua visita» afferma.

Non ne dubito, a giudicare dal suo aspetto post-sesso.

«Volevo parlargli di alcune mie idee» spiego.

«Mi dica» gesticola.

«Vorrei incontrare il detenuto della cella blindata.» Senza darmi modo di ribattere, dice un no categorico. «Mi dia un buon motivo» assottiglio gli occhi.

«Quell'uomo è instabile, assolutamente no.»

«Non lo sono tutti qua dentro?» domando.

«Non come lui.»

«Si rende conto che lo tiene segregato in quella cella? Se quell'uomo perde anche l'ultimo briciolo di sanità che gli rimane la colpa sarà solo sua perché lo sta escludendo da ogni tipo di attività del penitenziario. Non mi permette neanche di visitarlo, il suo cervello in questo momento starà friggendo a causa sua» lo indico, alzando il tono.

Il direttore assottiglia gli occhi, furioso.

«Non si azzardi mai più ad alzarmi la voce signorina Hole, sa che posso facilmente licenziarla?» sbotta.

Ed ecco dove volevo arrivare io.

Mi sporgo verso la scrivania, mantenendo una faccia da poker. «E lei sa che io posso benissimo rovinarle il matrimonio e la facciata da direttore perfetto che indossa tutti i giorni?» lo provoco, notando un guizzo sulla mascella. «Di che sta parlando?» domanda, apatico.

«Lo chieda a Boone» ammicco, alzandomi dalla poltrona. Molto bene, forse dovrei fare una visita agli archivi dove dispongono dei computer con le riprese. Mi richiama, mentre io apro la porta. Il direttore si passa una mano in viso, sospirando fiacco. «Che cosa vuole, signorina Hole?» domanda. «Voglio che lei mi permetta di fare il mio lavoro senza aprire bocca, ecco cosa voglio. D'ora in poi, qualsiasi cosa io vorrò fare lei dovrà semplicemente tacere e acconsentire» intimo.

«Sta camminando sul filo del rasoio» sbotta.

«No, qua l'unico a rischiare grosso è lei» affermo.

«Tenga la bocca chiusa, Hole» intima.

«Lo farò, se lei mi darà la chiave della cella blindata.» Assottiglia gli occhi, guardandomi con vera noia per poi aprire il cassetto e lanciarmi al volo le chiavi. Le prendo, mentre lui inizia a grattarsi il mento coperto di barba con nervosismo. Gli getto un'ultima occhiata, uscendo dal suo ufficio con la chiave in mano. Trattengo un sorriso, riflettendo sull'andare o meno agli archivi. Non mi fido del direttore, neanche del suo amante buzzurro. Se quei due hanno intenzione di farsi la storiella che se la facciano, a patto che non si immischino nel mio lavoro. 

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