Cap.4 Elly

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GRACE

Passeggio per la casa in completa solitudine. Mi guardo intorno, stupita. Questa villa è degna di un film, è fenomenale. Continuo a passeggiare lungo l'immenso corridoio che divide le camere. Appese ad alcune pareti ci sono diverse foto che ritraggono una famiglia felice. Mi avvicino maggiormente a una di esse e perdo un battito alla vista di un piccolo bambino dai capelli corti e scuri e occhi neri come la pece. Il suo sorriso è sincero, genuino. E quello sguardo... quello sguardo lo riconoscerei tra mille. È Jason. Questa è la sua casa. Sfioro il suo volto con un dito mentre una lacrima scende calda lungo la guancia. Un bambino bellissimo, spensierato, immerso nell'immenso verde di quest'abitazione, con una famiglia amorevole alle spalle. O almeno, questo è quello che emerge da questa foto. C'è anche Jude, in braccio alla madre. La signora White ha dei lunghi capelli biondi che le scendono lungo la schiena, denti bianchissimi e trucco curato. Il suo abbigliamento è ricercato, non ci vuole un esperto per capire che si tratta di alta moda. Il signor White, al contrario, indossa una semplice tuta nera. L'uno l'opposto dell'altro, a quanto pare. Ma gli opposti si attraggono, no? Chi meglio di me può dirlo? Io e Jason veniamo da due mondi completamente diversi; sì, sono cresciuta in una famiglia agiata, mio padre è conosciuto nel panorama imprenditoriale ma nulla a che vedere con la famiglia White. Il loro nome domina l'imprenditoria da generazioni. Sono una famiglia facoltosa e ricca. Molto ricca. Mi chiedo come mai Jude si sia ridotto a questo. Rapire una persona per attirare l'attenzione di qualcun altro. Mi chiedo se i loro genitori sappiano della diatriba in corso e della mia carcerazione, soprattutto. Ormai Jason deve aver contattato qualcuno. Me lo auguro. La persona che più mi preoccupa, però, è Claire. Che ruolo ha in questa storia? Possibile mai che mi odi fino a questo punto?

Continuo a passeggiare, arrivando alla fine del corridoio. La fredda brezza dicembrina penetra dalla finestra rimasta semi aperta. Devono averla dimenticata così. La chiudo, soffermandomi con lo sguardo sull'esterno. Piove a dirotto. Il cielo grigio e cupo mi intristisce maggiormente. È Natale e io sono qui, rinchiusa in una mega villa, completamente sola. Quasi rimpiango i tempi in cui detestavo i miei per aver scelto l'ennesimo locale super chic per il pranzo di famiglia. I miei "carcerieri" hanno deciso di lasciarmi in balia del nulla; c'è solo una cuoca in casa con me e degli uomini posti all'entrata, messi lì per sorvegliarmi. Vorrei davvero scappare ma dove potrei andare così su due piedi? Ho un pessimo senso dell'orientamento, i vestiti che hanno acquistato per me non sono adatti alla stagione e probabilmente congelerei nel giro di poche ore. No, non posso e non voglio permettermelo. Ho ancora tanto da condividere con Jason.

Scendo al piano di sotto, raggiugendo la cucina. La trovo lì, in piedi, mentre affetta qualcosa sul tagliere.

«Sono verdure?», chiedo, entrando a piccoli passi.

La donna alza lo sguardo nella mia direzione, sorridendomi. È la prima volta che la vedo da quando sono qui. I primi due giorni non ho messo piede fuori dalla camera. Solo ora, complice l'assenza di Jude e Ryan, ho deciso di curiosare un po' in giro.

«Lo so, non è molto. Ma non c'è altro in frigo. Ho pensato di preparare un brodo caldo per entrambe».

«Lei non ha una casa dove tornare?», chiedo senza pensarci troppo, noncurante che quella domanda potrebbe farla stare male.

Scuote il capo, sorridendomi solo con la bocca. I suoi occhi sono tremendamente tristi.

«Ho perso la mia casa molti anni fa, signorina Johnson», conosce il mio cognome, bene. «Sono stata assunta dai signori White subito dopo la morte di mio marito e non ho smesso di essere al loro servizio. Anche se sono certa che loro non accetterebbero quello che sto facendo per il signor Jude», continua, sconfitta.

«Questa casa appartiene ai signori White?», chiedo, accomodandomi sullo sgabello difronte alla penisola.

Annuisce. Continua a tagliare la verdura in modo magistrale, maneggiando il coltello come un'abile cuoca.

«Questa è la residenza estiva. Venivano qui per le scampagnate o per passare le vacanze estive, appunto. I ragazzi sono cresciuti tra queste mura», confessa.

Bene. Allora non sarà difficile per Jason risalire a me. Sorrido al solo pensiero. Non sono poi così lontana da lui.

«Perché lo sta facendo?», chiedo, agguantando una carota e staccandone un pezzo con i denti. «Voglio dire, avrebbe potuto lavorare per Jason non per Jude», continuo, masticandola.

La signora poggia il coltello al lato del tagliere, alzando lo sguardo nella mia direzione. I suoi occhi marroncini leggermente dorati mi ricordano il miele. Ha i capelli raccolti in uno chignon tirato e le ciocche grigie manifestano il suo essere leggermente in là con gli anni.

«Jason non ha bisogno di me. Ha le spalle larghe. È riuscito a ricostruire la vita negli anni e lo ha fatto da solo, senza il bisogno di dover ricevere qualcosa da qualcun altro. È sempre stato il più introverso e il più duro dei due, caratterialmente parlando. Jason è il nero, Jude il bianco», riprende a parlare, questa volta mantenendo il contatto visivo. «Ho seguito Jude perché lui non è mai riuscito a concludere qualcosa da solo in vita sua. Ha sofferto molto l'assenza della sua famiglia, perfetta nella facciata ma povera nell'animo; sua sorella è morta per overdose da farmaci, lo sapeva?», mi chiede, voltandomi le spalle per versare le verdure nella pentola.

Cosa? Jason aveva una sorella? Possibile che io non mi sia informata su quella che era la sua vita prima di me?

«Non ne sapevo nulla, Jason non me ne ha parlato», ammetto, abbassando lo sguardo.

«Non mi stupisce. Jason è bravo a mantenere nascosti i sentimenti, il dolore in particolar modo. Sembra che nulla lo tocchi, lo scalfisca; in realtà è un uomo piene di crepe, spezzato dalla vita e deluso dagli esseri umani. Di tutta la famiglia White, lui è quello che più ha sofferto. E lo ha fatto in silenzio».

Mi si spezza il cuore nell'udire queste parole. Le lacrime spingono in modo deciso per uscire fuori, costringendomi a tirare su con il naso per reprimerle. Io non immaginavo che Jason avesse avuto un passato così turbolento. Come avrei potuto, d'altronde? Lui ha una personalità impenetrabile. O almeno, lo era fino a quando non abbiamo iniziato a provare qualcosa l'uno per l'altro. Se solo avessimo avuto più tempo a disposizione, probabilmente, me ne avrebbe parlato. Ne sono certa.

«Io non so che ruolo ricopra lei nella sua vita, signorina. Ma sono certa, a questo punto, che lei è davvero importante per Jason. Le chiedo di amarlo e apprezzarlo per quello che è, senza sentire il bisogno di cambiarlo. Non è una persona semplice, stargli al fianco è molto spesso un inferno ma è un uomo buono... in fondo. Ha davvero tanto da dare al mondo intero, ha solo bisogno di ritrovare quella fiducia ormai persa nell'umanità», continua, attirando nuovamente la mia attenzione.

Questa volta non riesco a reprimerle. Le lacrime scendono come un fiume in piena lungo il mio viso, rigandolo. Lo so. Lo so che Jason è un uomo buono. Lo so che è in grado di amare. E di essere amato. So benissimo tutto questo e molto di più. Quello che non so, purtroppo, è come uscire da questa dannata casa. Come tornare da lui.

«Io lo amo con tutta me stessa. Non meritiamo di soffrire come stiamo facendo. La prego, mi aiuti a tornare da lui», mi alzo, implorandola. «Le assicuro che ci salveremo insieme, che nessuno le torcerà un solo capello e che avrà protezione per la vita. Ma la prego, mi aiuti», continuo, singhiozzando.

La donna ripone il mestolo nel poggia mestolo e si avvicina a me. Mi poggia una mano sulla guancia, accarezzandola come una mamma farebbe con una figlia.

«Vorrei tanto farlo ma non posso, non ora. Ho bisogno di tempo», mi sussurra, affranta.

Non capisco. Perché non può aiutarmi? Perché non vuole farlo?

«Abbi fiducia in me, Grace. Uscirai fuori da qui sana e salva. Ma devi darmi tempo», continua, tirando su il naso a sua volta.

I suoi occhi lucidi e pieni di lacrime sembrano essere sinceri. Tuttavia, sento un freddo gelido nelle ossa. Mi sento persa, spezzata, sfinita. Il mondo ha davvero bisogno di tanta sofferenza? Io e Jason meritiamo davvero ciò?

«Come si chiama?», chiedo con un filo di voce.

«Ellen», schiarisce la voce, «ma tu puoi chiamarmi Elly, se vuoi».

Elly. Mi piace.


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