***Capitolo 12: Colori

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Pensavo al sole, mentre mi allontanavo dal campo verso la macchina; pensavo al sole e a come il suo calore finalmente si sentisse sulla pelle.

Aprile stava ormai giungendo al termine e le temperature si erano alzate. Pensai a come sarebbe stato più semplice adesso tuffarsi, come una volta uscita dall'acqua fredda sarei stata accolta dal sole e non dal vento.

In quel momento avrei tanto voluto girarmi e andare fino alla spiaggia, lanciarmi giù dalla mia scogliera e sentire il vuoto sotto i piedi; forse così quella cosa che avevo dentro lo stomaco si sarebbe distrutta nell'impatto con l'acqua.

Ma l'unica adrenalina che provai fu quella causata dalla voce di Aron quando finalmente si decise a rompere il silenzio. E non potevo negare che forse era anche meglio.

"Non ci serve la macchina."

Aspettai che aggiungesse qualcos'altro ma quando non lo fece, mi fermai e mi girai: senza altre indicazioni non sapevo dove andare, ancora non mi aveva detto cosa avremmo fatto quel giorno.

Ci trovavamo ad un bivio. Se giravamo a sinistra tornavamo verso il piazzale dove avevamo parcheggiato, se invece proseguivamo verso destra restavamo dentro la città fantasma.

Aprii la bocca per chiedere perché non ci servisse la macchina, ma fui bloccata.

"Non chiedere niente", disse. Aggrottai le sopracciglia, pronta a controbattere. "Ho una domanda io da farti adesso."

"Non puoi essere sempre te quello che fa domande e io quella che rispondo."

Mi ignorò, spostò un rottame con la scarpa e poi si avvicinò di qualche passo. "Quando mi avevi fatto quella domanda quel giorno nella serra, cosa mi avevi chiesto? La prima domanda."
Era così calmo, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, lo sguardo perso tra gli edifici diroccati che ci circondavano.

"Una cosa in cui eri bravo", risposi.

"E cosa avevo risposto?"

"Leggere il linguaggio del corpo." Sentii il cuore accellerare perché temevo di sapere dove volesse arrivare col suo discorso.

"E ti ho parlato di come le parole ingannino a differenza del corpo." Picchiettò con la scarpa altri pezzi di cemento, gli occhi bassi sui suoi piedi. "Di come si possa dire qualcosa e intendere il contrario..." L'elettricità mi scorreva nei polpastrelli delle dita così le strinsi a pugno, desiderando stringermi lo stomaco, il cuore, e far uscire tutta quella tensione che sembrava mangiarmi da dentro. "Ma proprio qualche minuto fa al campo le tue reazioni raccontavano una storia diversa da quello che mi hai detto prima in macchina." Improvvisamente alzò la testa e mi inchiodò con lo sguardo. C'era un'avvertimento nascosto tra le sue ciglia, qualcosa che andava ben oltre la semplice voglia di aver ragione, di provare il suo essere bravo in qualcosa. "Quindi te lo richiedo una seconda volta: sei gelosa?"

Presa alla sprovvista dalla domanda non riuscii a trovare la voce per qualche secondo, rimasta incastrata da qualche parte tra la gola e la lingua. Se avessi abbassato lo sguardo sul mio petto sarei stata in grado di vedere il cuore battere frenetico contro il tessuto fino della maglia.

Se io mi ero rifiutata di dare un nome a quella cosa che sentivo premere insistente all'altezza dello stomaco, non significava che Aron avrebbe fatto lo stesso. E lui non era stato zitto, no, non aveva esitato a chiamarla col suo nome, e nel silenzio che ci circondava sembrava averlo urlato.

"Non sono gelosa", negai, mentii, testando per la prima volta il sapore del suo nome.

Aron mi guardò in silenzio per qualche istante, poi le sue labbra si curvarono in un sorriso che non aveva nulla di ciò che rendeva un sorriso una cosa bella; era freddo e vuoto come la città che ci circondava.

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