Il succo di mela scivolava dalla bocca al polsino della maglia di cotone che indossavo. Presi un altro morso e poi mi pulii la bocca col dorso della mano. Era la prima mela colta quell'anno, l'albero sotto la mia finestra ormai colmo di frutti verdi e grossi.
Lanciai il torsolo nel cestino e attraversai la piazza, diretta alla zona sud della città.
Non avevo avvisato Aron del mio arrivo perché avevo temuto in un suo rifiuto. Appena Micheal se ne era andato mi ero imposta di aspettare fino alle sei del pomeriggio finché Aron fosse tornato dal lavoro prima di fiondarmi a casa sua.
Lo stomaco mi faceva male. Pensavo fosse perché non ero riuscita a mangiare quasi nulla a pranzo, ma nemmeno la mela aveva risolto la situazione. Una vocina nella mia testa mi diceva che era colpa dell'ansia e non di un qualche strano virus, ma non volevo ascoltarla perché non volevo accettare la ragione del mio malessere. Non volevo nemmeno pensarci e così, mentre camminavo verso Highfield Road, osservavo le altre persone. Guardavo i loro volti quando mi passavano affianco chiedendomi quali fossero i loro problemi, perché fossero di fretta, perché camminassero a testa bassa e non guardassero mai il cielo.
Quando incrociai lo sguardo di una ragazza della mia stessa età, lei contrasse le sopracciglia, confusa probabilmente dal mio sguardo insistente. In quel momento desiderai fermarla e chiederle di raccontarmi i suoi problemi perchè avevo un disperato bisogno di ascoltare altre persone parlare delle cose che le tormentavano, vedere come affrontavano i problemi perché io non sapevo più cosa fare con i miei e avevo la sensazione che tutto stesse andando per il verso sbagliato.
Giunta al palazzo di Aron salii le scale fino al quarto piano chiedendomi se dopotutto non fosse stato meglio avvisarlo prima di presentarmi alla sua porta. Ma ormai ero lì e chiamarlo al telefono o bussare non faceva più nessuna differenza.
Bussai, feci un passo indietro e aspettai. Nessuno venne ad aprire. Bussai ancora una volta, poi una terza e solo allora sentii dei passi avvicinarsi.
Quando la porta si aprì la prima cosa che notai furono gli occhi spalancati e fuori di sè di Aron. Se non fossi stata così concentrata sul suo volto pallido avrei dato più peso al tremore delle sue mani mentre stringevano lo stipite della porta talmente forte da far diventare bianche le nocche.
"Non è un buon momento", disse a fatica.
"Che succede? Stai bene?"
"Sto bene", disse in fretta bloccandomi quando feci un passo in avanti. "Puoi ripassare? Non è il momento adatto, non sono solo."
Gettai un'occhiata alle sue spalle, ma non riuscivo a vedere il corridoio perché teneva la porta aperta solo di un quarto. Osservai il suo volto, le sue mani, ripensai alle sue parole e il panico cominciò a farsi spazio nel mio petto mentre giunsi alla peggiore delle conclusioni. Il ricordo di quel ragazzo accasciato sul marciapiede di Roven's Street con la siringa sul braccio affiorò nella mia mente con la forza di un pugno in piena faccia.
"Cosa intendi, Aron? Non hai...non hai ricominciato a...a...". Mi bloccai incapace di far uscire quella parola dalle mie labbra.
Mi guardò confuso e quando capì scosse vigorosamente la testa. "No, Jane, no", mi rassicurò e io lasciai andare il respiro.
"Allora che succede? Perché non posso entrare?", chiesi cercando di rimanere calma, ma fallendo miseramente. Non riuscivo a stare calma perché ciò che mi calmava solitamente erano i suoi occhi e in quel momento in essi imperversava il panico ed era un panico non causato dal mio arrivo: in quell'appartamento stava succedendo qualcosa.
Aprì la bocca e poi la richiuse. Serrò gli occhi qualche istante prima di riaprirli e puntarli al pavimento. "Amy".
Feci un passo indietro come se qualcuno mi avesse davvero colpita in pieno volto. "Cosa", mormorai.
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Ricordati quando
Roman d'amourDal capitolo 1: C'era un motivo ben preciso per cui mi tuffavo da una scogliera alta venti metri. Era l'unico modo che mi era rimasto per sentirmi viva. Quello, ed ogni altra cosa pericolosa o rischiosa. Volevo sentire il cuore battere all'impazzat...