***Capitolo 48: Calma apparente

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Era domenica oggi e le ultime due settimane sembravano avermi prosciugata, tagliandomi via parti con clinica mancanza di empatia, pezzo per pezzo.

C'era una frase che Simon aveva detto quando stavamo montando le tende sulla radura, il primo giorno di vacanza, e che ora continuava a tornarmi in mente.

Aveva detto che tutti sottostimavano il campeggio. Che un singolo, piccolo errore o una mancanza di preparazione adeguata che uno poteva considerare poco importante, potevano in realtà portare ad un mondo di pericoli, anche mortali.

Io non avevo dato poco importanza alla mia confessione. Sapevo i pericoli che avrebbe portato, li conoscevo bene e avevo parlato con quella consapevolezza in mente. Ma ora, mentre guardavo il campo da basket e i miei amici che rincorrevano la palla, mi rendevo conto che avevo comunque sottostimato le conseguenze.

Perché da allora Aron non aveva più messo piede al campo da basket.

Sapevo che dopo quella folle notte al Luna Park le cose sarebbero cambiate, ma quell'abbraccio davanti alla giostra dei cavalli mi aveva ingenuamente illusa di qualcosa su cui invece non avrei dovuto sperare.

Non ero in grado di spiegarmi come le cose stessero cambiando, ma stavano cambiando, erano già cambiate.

Via via che passavano i giorni era come se un brandello di Aron mi stesse scivolando via dalle mani o come se anche lui, come l'estate ormai giunta al termine, si stesse congelando, la sua temperatura si raffreddava come i gradi che stavano inesorabilmente calando ogni giorno di settembre che passava.

I suoi sorrisi erano diminuiti, i suoi discorsi sorti dal nulla su qualunque cosa erano sempre più rari, lo scintillio che illuminava i suoi occhi sembrava affievolirsi.

Mi cercava ancora, mi cercava ogni giorno, ma quando andavo a casa sua il silenzio che regnava era freddo come l'inverno alle porte.

Mi mancava sentirlo parlare. Mi mancavano le nostre conversazioni. Ora stavamo in silenzio, lui dipingeva ma non mi mostrava mai i suoi quadri nè chiedeva la mia interpretazione; io stavo sul divano e cercavo di concentrarmi sulla ricerca di corsi e di un lavoro part time.

Si perdeva a guardarmi. A volte mi guardava per minuti interi mentre io fissavo senza vedere lo schermo del computer, e non potevo fare altro che chiedermi che cosa gli stesse passando per la testa, e la parte più bella e più brutta insieme era che mi guardava con un affetto che assomigliava tremendamente all'amore e lo sapevo perché era lo stesso sguardo con cui lo guardavo io.

Se provavo a chiedergli a cosa stesse pensando, non mi dava mai risposte. Se insistevo si arrabbiava a sua volta e mi diceva che se non avevo voglia di stare con lui potevo andarmene, che la strada per uscire la conoscevo.

Ma io restavo, il più delle volte almeno, perché i rari momenti in cui sorrideva non volevo perdermeli, volevo baciarlo per respirare la sua risata e tenerla dentro di me perché sapevo che un giorno mi sarebbe mancata ancora più di adesso.

Avevo la sensazione, infatti, ogni giorno di più, di trovarmi nel momento esatto che precedeva lo scoppiare di una tempesta. C'era quella calma apparente che mi faceva scorrere un brivido freddo lungo la schiena. Il cielo si stava addensando di nuvole cupe, si chiudeva sopra di noi come una morsa.

"Jane." La voce di Rose mi fece distogliere lo sguardo dal cielo. Mi voltai e la sua espressione era esistante. "C'è Aron."

Il cuore saltò un battito. "Che cosa?" Mi girai di scatto verso il cancello.

"Si è degnato a farsi vivo", continuò Rose. "Chissà se si ricorda ancora i nostri nomi."

Aron chiuse il cancelletto con il piede e si incamminò nella nostra direzione. Era vestito in tuta, pantaloni grigi e felpa nera, il cappuccio tirato su per proteggersi dalla leggera aria, ma non era sporco di colore quindi non stava dipingendo ai binari.

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