***Capitolo 43: Infradito

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Passai l'ennesimo borsone a mio padre. "C'è altro?"

"No, dovrebbe essere tutto", rispose riponendolo nell'auto affianco a tutti gli altri.

Guardai il baule pieno e mi chiesi cosa mai si stessero portando via per solo cinque giorni, e poi sospirai perché quell'estate sembrava essere più trafficata che mai. La gente partiva e se ne andava in continuazione, la mia quotidianità trasformata in una stazione ferroviaria.

"Guida piano", dissi abbracciandolo. "E saluta i signori Rogers da parte mia."

"E tu non dare troppe feste finché non ci siamo", scherzò ammonendomi però con lo sguardo nel caso mi fosse venuto in mente di farlo davvero.

In quel momento mia madre uscì dalla porta, gli occhiali da sole in testa e un'altra borsa esageratamente piena stretta al petto.

"Jane, il frigo è quasi vuoto, ma ti ho lasciato i soldi per la spesa dentro la caraffa", mi ricordò per l'ennesima volta e io mi trattenni dall'alzare gli occhi al cielo. "Ricordati di chiudere sempre a chiave la porta, non dare fuoco alla casa, stai attenta e chiamami ogni giorno."

"Certo mamma, stai tranquilla. È solo una settimana", la canzonai mentre entrava in macchina. "Non darò fuoco alla casa".

Mi lanciò un'ultima occhiata preoccupata prima di salutarmi e chiudere la portella. Non era nemmeno una settimana, erano quattro notti, cinque giorni, il loro annuale weekend passato coi Rogers in montagna aumentato di due giorni perché l'agenzia viaggi aveva fatto un'offerta.

Sorrisi e salutai con la mano finchè non scomparvero oltre la curva. Una volta in casa, mi buttai sul divano, decisa a guardare qualsiasi film decente avessero trasmesso alla televisione, quando mi arrivò un messaggio da parte di Aron. 'Appena tornato', diceva.

Lasciai perdere la ricerca di un film, ma prima che avessi solo il tempo di iniziare a pensare ad una risposta, il telefono cominciò a squillare facendomi perdere un battito. Mi dissi che non c'era bisogno di agitarsi inutilmente e dopo un respiro profondo accettai la chiamata.

"Hey."

"Hey, Aron? Ha! No!" Rispose una voce femminile, allegra anche attraverso la cornetta. "Sono Annabelle! Perché diamine non ho il tuo numero di telefono? Jane! Devi darmelo!"

"Uhm...", esitai confusa e sorpresa. "Ciao, Annabelle. È...è successo qualcosa?"

"No! Aron voleva buttarci fuori di casa per invitarti, allora ho preso in mano io la situazione e ho detto: no, no, nessuno se ne va, siamo tutti amici, facciamo una rimpatriata!"

Corrugai le sopracciglia. "Fuori di casa?" Strinsi la maglietta all'altezza del petto, come se quello potesse in qualche modo fermare la stretta al cuore che avevo sentito alle sue parole.

"Ah-ha! Casa di Aron!", esclamò. Mi chiesi se fosse completamente sobria. Probabilmente no. "Ci raggiungi, giusto? Fai presto, ti do cinque minuti massimo!"

"Ehm..." Mi tirai su a sedere, guardandomi intorno, la casa deserta, la tuta che indossavo. "Non ho la macchina, quindi ci metterò un po' di più. Devo venire a piedi."

Annabelle fece un suono simile a un lamento. "Ti vengo a prendere io?" In sottofondo sentii qualcuno, forse Tom, dire: "Belle, siamo venuti tutti a piedi dalla stazione", a cui seguì un secondo lamento ancora più lungo del primo.

"Arrivo il prima possibile", dissi. Mi buttò giù la chiamata. Fissai disorientata il telefono e poi, per la prima volta dopo quelli che mi erano sembrati mesi, sorrisi.

***

La finestra dell'appartamento numero 13 era illuminata, uno dei tanti rettangoli gialli del palazzo, la luce più aranciata delle altre perché Aron preferiva i colori caldi a quelli freddi. Highfield road era tranquilla come sempre e in quel momento della giornata forse ancora di più, sospesa nell'ora del crepuscolo, col cielo che si tingeva di indaco.

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